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29 Dic 2023  |  0 Commenti

Educazione Affettiva come nuovo Modello Duluth: perché il Gender Shaming non funziona per ridurre la Violenza Domestica (parte II)

Come abbiamo visto nella 1° Parte, l’Educazione Affettiva che il governo sta preparando per “ridurre la violenza sulle donne e i femminicidi” ricorda moltissimo il Modello Duluth, ovvero quegli interventi che hanno cercato – fallendo miseramente nello sforzo – di evitare recidive negli uomini maltrattanti inculcando loro che “le donne vanno rispettate”. Il problema è che, come vedremo meglio anche qui, ciò che spinge le persone violente a fare violenza nelle relazioni non è la loro idea sul “rispetto di genere”, ma piuttosto un problema di disregolazione emotiva, attaccamento insicuro e disturbi di personalità, che se non trattato porta comunque a nuove recidive di violenza.

Magari in seguito agli interventi Duluth/Educazione Affettiva gli abusanti si sentiranno più in colpa dopo aver compiuto violenza, ma non si fermeranno ugualmente, perché non avranno comunque strumenti di regolazione emotiva alternativi all’abuso.
Instillare sensi di colpa non salva nessuno. Far venire i sensi di colpa e le “lacrime di coccodrillo” agli uomini violenti dopo averle colpite, non salva le donne vittime di violenza.

Al contrario: crea un falso senso di sicurezza nelle donne a contatto con questi uomini abusanti “rieducati”, ignora le vittime maschili di donne abusanti, e colpevolizza un intero genere per gli errori di pochi individui. Colpevolizzerà anche le vittime maschili di violenza domestica, che saranno socialmente obbligate a sentirsi in colpa per la violenza operata dagli uomini violenti, e non le loro maltrattanti, che anzi verranno dipinte come vittime, potendo usare questo strumento (la vergogna di genere) per assoggettare ancora di più gli uomini abusati se mai dovessero osare ribellarsi e volerle denunciare o lasciare.
Stiamo quindi parlando di un rovesciamento completo della realtà.

Ma analizziamo meglio il Modello Duluth e – di conseguenza – l’Educazione Affettiva che è una copia carbone di questo tipo di intervento: in base a cosa diciamo che non è in grado di prevenire la violenza? Vediamolo assieme!

 

Recidivismo e Assenza di Efficacia del Modello Duluth: lo stesso destino attende la futura Educazione Affettiva, Sentimentale o “al Rispetto”?

L’enorme insuccesso del Modello Duluth nel ridurre o eliminare la violenza tra i perpetratori, insieme alla morsa ferrea della proibizione di altri approcci, è forse la sua caratteristica più dannosa.

In uno studio sui risultati del trattamento condotto sul Modello Duluth, Shepard (1987, 1992) ha riscontrato un tasso di recidiva del 40% in un follow-up di sei mesi sui clienti Duluth, addirittura persino superiore alla maggior parte dei livelli di recidiva nei gruppi di controllo!

Babcock et al. (2004) hanno stimato i tassi generali di recidiva al 35% per un follow-up di 6-12 mesi secondo le mogli, e al 21% nello stesso periodo di tempo utilizzando dati di giustizia penale (arresti).

Pertanto questi risultati sembrano indicare che i clienti restino ugualmente pericolosi o possano perfino peggiorare e non migliorare, dopo il trattamento con il Modello Duluth, nella loro pericolosità sociale e nella possibilità di recidiva.

Feder e Forde (1999), ad esempio, hanno diviso in modo casuale gli autori di violenza in libertà vigilata della Contea di Broward, in Florida, in due gruppi, assegnandone metà ad un programma psicoeducativo femminista, e l’altra metà a nessun trattamento. In generale, non ci sono state differenze statisticamente significative tra i due gruppi relativamente alla recidiva misurata dai registri della polizia (d = 0,04) o dalle segnalazioni delle vittime (d = − 0,02).

Perché succedeva questo? Perché questo tipo di interventi, simili all’Educazione Sentimentale, Affettiva o “al Rispetto” proposti in Italia e in Europa, non davano i risultati sperati? Perché si basavano sulla “Vergogna di Genere” o “Gender Shaming”.

Il trattamento e il relativo miglioramento sono infatti resi impossibili da questo tipo di retorica programmatica, secondo cui:

“Le percosse, i maltrattamenti e altri abusi domestici non sono mai provocati, ereditari, fuori controllo, accidentali o un incidente isolato senza ulteriori dinamiche. Le percosse e i maltrattamenti non sono causati da malattie, diminuzione dell’intelletto o intelletto diminuito, alcolismo/dipendenza o intossicazione, malattie mentali o qualsiasi persona o evento esterno. La violenza domestica è un mezzo utilizzato dagli uomini per dominare, controllare, svalutare e privare di potere sistematicamente le donne. Le percosse, i maltrattamenti e le violenze sono più grandi di un atto individuale; sostengono al contrario l’obiettivo più ampio dell’oppressione delle donne. Gli uomini picchiano e maltrattano perché possono e questo serve come mezzo per raggiungere un fine.”

Questa citazione proviene da una presentazione di “consulenza sanitaria” nello Stato di New York (Corvo & Johnson, 2003).

Non sono ammesse altre circostanze, motivazioni o interpretazioni.
Con questa mentalità, alti livelli di attrito con il programma sono inevitabili. Nessun legame o alleanza terapeutica può formarsi, e i clienti che aderiscono si sentiranno giudicati e non creduti.

L’empatia è impossibile, il cambiamento è improbabile, il processo di gruppo è sovvertito e l’impegno dei clienti al cambiamento è raramente interiorizzato. È una postura alla “prendere o lasciare”, e molti clienti infatti fanno proprio questo: andarsene.

Approssimativamente il 40-60% degli uomini che partecipano alla prima sessione di trattamento non riesce effettivamente a completare il trattamento di tipo Duluth, nonostante la partecipazione sia spesso una condizione per la libertà vigilata e la mancata osservanza e conformità comporti il rischio di incarcerazione (Buttell e Carney, 2002).

Dutton e Corvo (2006, 2007), nella loro meta-analisi, hanno citato e incluso tutti gli studi sugli esiti del trattamento disponibili all’epoca. Hanno riportato la scoperta di Shepard (1987) di un tasso di recidiva del 40% entro 6 mesi a seguito di un programma Duluth, così come molti altri fallimenti nel trovare effetti positivi dai programmi e dagli interventi che seguono il Modello Duluth (Babcock et al., 2004; Davis, Taylor & Maxwell, 2000; Feder & Wilson, meta-analisi del 2005).

I sostenitori del modello, come Gondolf, affermano che, se solo Dutton e Corvo avessero consultato il loro studio, avrebbero avuto una visione diversa della questione. Ma lo studio di Gondolf era già incluso nella meta-analisi che Dutton e Corvo avevano citato (Babcock et al., 2004), e non ha fatto alcuna differenza per quanto riguardava i risultati. Il Modello Duluth falliva ancora lo stesso.

Anche un’altra meta-analisi, più recente (Feder & Wilson, 2005), ha incluso i risultati di Gondolf (Jones & Gondolf, 2002). Anche gli autori di questa meta-analisi, però, hanno concluso che “l’effetto medio per gli esiti riportati dalle vittime era pari a zero” (p. 239). Questo per quanto riguarda il problema della “selettività”.

Gondolf (2006a), inoltre, riporta un tasso di recidiva del 41% sulla base dei resoconti delle mogli in un follow-up di 30 mesi. Il gruppo psicoeducativo (basato sempre sulla Teoria Femminista del Patriarcato nella Violenza Domestica) di Quincy aveva un tasso di fallimento addirittura del 50%.

Al contrario, i gruppi CBT (ovvero di Terapia Cognitivo-Comportamentale) avevano un tasso del 21% tra coloro che avevano completato il programma, a livello nazionale e fino a 11 anni dopo il completamento del trattamento, sulla base dei rapporti della polizia (Dutton, Ogloff, Hart, Bodnarchuk & Kropp, 1997). E’ stato riscontrato un tasso di recidiva di appena il 16% sulla base dei resoconti delle mogli fino a 2,5 anni dopo la CBT (Dutton, 1986).

Gli uomini nei programmi Duluth, invece, imparano rapidamente come conformarsi alle richieste politiche di genere del “facilitatore”, ma il cambiamento reale è minimo o nullo.

 

Potere, Controllo e Patriarcato: davvero è questo che spinge gli uomini abusanti a fare violenza sulle donne?

Secondo il Modello Duluth, “potere e controllo” sono le principali motivazioni della violenza domestica (IPV), ma solo nei maschi. Le femmine apparentemente non soffrirebbero di questa afflizione motivazionale; secondo il Modello Duluth non avrebbero bisogno né necessità di potere o controllo. La psicologia essenziale degli uomini, secondo questo modello, sarebbe completamente diversa da quella delle donne.

Tuttavia, i dati ci dicono una cosa ben diversa: uomini e donne riportano infatti di usare con la stessa frequenza motivazioni di “potere e controllo” (Follingstad et al., 1991), e la dominanza nei matrimoni è all’incirca uguale per il genere (Coleman & Straus, 1986).

Come possiamo notare, dunque, il Modello Duluth, che non è stato redatto da psicologi, manca di una comprensione psicologica di base, ma sostiene di essere in grado di cambiare il comportamento umano. Dutton e Corvo hanno analizzato e riportato nella loro review il lavoro approfondito sulle motivazioni di potere di McClelland (1975) nel loro articolo. Se Gondolf capisse questo, vedrebbe che la motivazione umana non differisce molto per il genere.

La motivazione del potere, inoltre, genera azioni enormemente diverse, come ad esempio: candidarsi per un incarico politico, collezionare francobolli, e cercare una relazione con un assassino detenuto. Perfino i sostenitori del Duluth che insistono che solo e unicamente il loro modello di intervento o simili possano essere approvati e finanziati dallo Stato, stanno agendo sulla base della stessa motivazione di potere!

Il persistente fallimento e la relativa incapacità del Modello Duluth di apprezzare la comprensione e gli insight psicologici è il baluardo chiave per stabilire un dialogo con gli attivisti Duluth. Il loro approccio “noi-loro” al lavoro include infatti una falsa dicotomia sulla motivazione umana.

Dutton (2007), al contrario, ha sostenuto che l’ansia, nello specifico l’ansia di attaccamento, è primaria rispetto alla motivazione al potere nelle relazioni intime, e fornisce una motivazione universale che richiede e necessita di attenzione terapeutica nei Programmi di Intervento per Autori di Violenza Domestica (BIP).

Numerose ricerche supportano questa visione: Mauricio, Tein e Lopez (2007), Fonagy, Target, Gergely e Jurist (2002) e Schore (2003a).

Sono pertanto le problematiche di attaccamento e i conseguenti disturbi di personalità degli autori di abuso, che dovrebbero essere trattati in ambito psicologico e con strumenti psicoterapeutici e non a suon di propaganda femminista, ad essere alla base della violenza domestica, e non motivazioni di “potere e controllo patriarcali”.

Nessun modello sociopolitico è più assurdo di quello che cerca di descrivere la motivazione umana in termini che chiaramente non comprende. È proprio per questa ragione che i programmi Duluth generano soltanto una conformità e una compliance superficiali nei gruppi di individui obbligati ad aderirvi, che inevitabilmente viene infatti seguita da elevatissimi tassi di recidiva al termine del gruppo.

 

Normatività della Violenza contro le Donne praticamente Nulla – anche quando lei attacca lui per prima

Le prove parlano fortemente contro qualsiasi accettazione normativa dell’aggressione sulle mogli e sulle compagne.
I dati provenienti da un ampissimo campione rappresentativo di 5238 adulti in Occidente hanno riscontrato infatti che l’accettazione della violenza da parte di un uomo nei confronti di una donna era bassa in tutti i sotto-campioni, indipendentemente dal genere o dall’etnia (Simon et al., 2001). Complessivamente, solo circa il 9,8% degli uomini (e il 7,2% delle donne) approvava il gesto di un uomo che colpiva una donna “se lei lo colpiva per prima”.

Considerando che si tratta di legittima difesa, solitamente accettata in ogni altro contesto se fatta tra uomini, tra donne e da parte di una donna verso un uomo, la morale normativa non solo è contraria alla violenza sulle donne, ma è addirittura contraria ad un diritto fondamentale come la legittima difesa se operata da parte di un uomo verso una donna! A parti invertite, se fosse normativo considerare sbagliato colpire gli uomini al punto da condannare il farlo perfino per legittima difesa, parleremmo per caso di “violenza contro gli uomini come normativa” o “espressione del matriarcato”? O parleremmo piuttosto di negazione del diritto alla legittima difesa?

Tornando al nostro studio, soltanto una percentuale minuscola, appena il 2,1% degli uomini (e l’1,4% delle donne), approvava il gesto di un uomo che colpiva una donna “per tenerla in riga”.

Pertanto, la “norma dell’accettazione” della violenza sulle donne su cui si basa la teoria patriarcale (Dobash & Dobash, 1979) è un mito.

Le prove contraddicono anche la visione patriarchista semplicistica del potere maschile nel matrimonio: solo il 9,6% dei matrimoni dichiara infatti di essere “a dominanza maschile” (Coleman & Straus, 1992), che comunque non indica né implica assolutamente l’impiego della violenza, ma solo una divisione di ruoli condivisa all’interno della famiglia o della coppia su chi è incaricato di prendere le decisioni.

Ricercatori e accademici femministi – come ad esempio Dobash e Dobash (2004) – che fanno ancora riferimento al “contesto della violenza”, evitano accuratamente di citare articoli come quello di Simon (Simon et al., 2001) che dimostrano invece che non vi è alcun supporto normativo per la violenza dell’uomo nei confronti della partner, e pubblicano invece risultati basati solo su interviste a coppie selezionate a causa dell’arresto dell’uomo per violenza domestica.

Ignorando i fattori, i bias e gli errori di selezione che questo tipo di campione presenta (come quello di chiamata differenziale della polizia [Stets & Straus, 1992] e la probabilità differenziale di arresto [Brown, 2004]), e affermando falsamente o erroneamente che le donne arrestate per violenza domestica siano troppo rare da studiare (ignorando, inoltre, il ruolo del sessismo giuridico nell’enorme reticenza ad arrestare le donne quando autrici di violenza domestica), accademici di questo tipo continuano a difendere la posizione patriarchista.

 

Disturbi di Personalità e Trattamenti Efficaci contro la Violenza Domestica – anche da parte di Donne contro Uomini

Se il Modello Duluth e il Gender Shaming non funzionano, cosa fare allora? Quale tipo di trattamento sarebbe meglio proporre invece?

Un trattamento efficace esiste ed è stato già proposto da Dutton e Corvo.

Questo trattamento impiegherebbe procedure consolidate della Terapia Cognitivo-Comportamentale (CBT), grazie a cui sarebbero da trattare e affrontare traumi, abusi, problematiche di attaccamento insicuro, disturbi di personalità e abuso di sostanze.

Questo programma richiederebbe l’impiego di professionisti: psicologi, assistenti sociali e terapeuti coniugali, evitando invece l’aiuto e i consigli di sostenitori e attivisti non-professionisti.

Inoltre, ora che le donne stanno iniziando finalmente ad essere arrestate per violenza domestica e non se la cavano più evitando l’arresto per omicidio tanto spesso come in passato (pur continuando ampiamente ad essere un enorme ed estremamente grave problema a tutt’oggi, che rende i numeri e le percentuali per genere degli omicidi per violenza domestica [IPH, Intimate Partner Homicides] altamente distorti, affetti da gravi ed enormi bias e pertanto completamente inattendibili), e che si sta scoprendo che le donne che hanno commesso violenza domestica sul partner presentano disturbi di personalità proprio come gli autori di violenza uomini (Henning, Jones & Holford, 2003), ci si chiede come potrebbero mai essere trattate da un modello che enfatizza la loro supposta schiavitù in un presunto mondo patriarcale.

Infatti, sono i disturbi di personalità e l’abuso di sostanze, e non il genere, ad essere i principali fattori predittivi della violenza domestica (Ehrensaft, Cohen & Johnson, 2006; Ehrensaft et al., 2004; Moffitt et al., 2001). Pertanto, la prevenzione dovrebbe partire da questi fattori e non dal Gender Shaming. Prevenire i disturbi di personalità con interventi mirati, anche nelle scuole, per riconoscerli e sostenere chi ne soffre prima che agisca contro altri, è l’unica via per ridurre la violenza domestica e non limitarsi semplicemente a fare virtue signaling e a mettersi in mostra alle spalle dei morti e delle vittime di violenza che attendono una prevenzione efficace prima che sia troppo tardi.

 

Underreporting della Gravità, delle Conseguenze e delle Ferite della Violenza sugli Uomini: A parità di atto e conseguenze la violenza contro le donne viene vista come più grave di quella contro gli uomini… anche e soprattutto quando non lo è!

Le vittime che beneficerebbero di un trattamento non-biased non sono solo femminili, anzi, sarebbero anche e soprattutto le vittime maschili di violenza domestica, attualmente sotto-riportate sia nelle statistiche ufficiali (per via di ritrosia delle vittime stesse, per paura di false accuse da parte delle loro abusatrici, per vergogna, per paura di ritorsioni, minacce e altre violenze, per ritrosia e derisione da parte del sistema e delle forze dell’ordine, tra le tante cose, per le vittime vive; per via del sessismo giuridico e dell’assenza di adeguate autopsie, accertamenti e apertura di inchieste e fascicoli di indagine per le vittime morte, spesso non inserite all’interno delle statistiche ufficiali o perché non viene arrestata chi le ha uccise – e quindi se la donna autrice del delitto non viene incarcerata o addirittura arrestata non risultano come omicidi da parte di donne –, o perché passano troppo spesso per suicidi, morti naturali o vittime di incidenti, visto che si tende a sospettare poco o nulla delle donne come autrici di violenza, e quindi a effettuare esami e accertamenti o anche solo interrogatori meno spesso quando è una donna la sola possibile sospettabile o sospettata, o anche perché gli uomini vittime di maschicidio vengono considerati più spesso persone scomparse e non uccise per colpa della “Sindrome da Donna Bianca Scomparsa” o “Missing White Woman Syndrome”, che direziona tutti gli sforzi per ritrovare le persone scomparse – e quindi scoprire anche se sono state uccise e non sono solo sparite – alle donne), sia tra i media (che danno molta meno copertura mediatica ai casi di vittime maschili, e quando coprono la notizia di una donna assassina, danno per scontato la sua versione dei fatti ignorando il suo evidente conflitto di interessi, e presumendo per partito preso che abbia agito per difendersi, anche e soprattutto nella maggioranza dei casi in cui si tratta di una finta legittima difesa, ovvero di una falsa accusa contro un morto che per definizione non può difendersi né replicare, perché i morti non parlano).

L’underreporting dell’entità delle vittime maschili è dovuto anche e soprattutto ai pregiudizi della società e specialmente delle forze dell’ordine, che hanno un evidente bias e doppi standard palesi negli arresti.

L’enfasi sulla violenza maschile è stata infatti promulgata anche dai dipartimenti di polizia, al punto che i maschi vengono arrestati in modo sproporzionato rispetto alle femmine per violenza equivalente e a parità di atti violenti (Brown, 2004).

Molte volte gli atti violenti compiuti da donne non vengono proprio visti o considerati violenza. Uno stesso atto, poi, quando e se riconosciuto come violento, viene visto comunque come molto meno grave se eseguito da una donna rispetto a quando compiuto da un uomo.

Sorenson e Taylor (2005) hanno rilevato, in un sondaggio a numeri casuali su 3679 residenti di Los Angeles, che le azioni vengono considerate violente o abusanti dal pubblico generale solo se compiute da uomini e non da donne. Questo è risultato vero per tutti i gruppi sociodemografici, e veniva incluso anche ciò che normalmente chiameremmo “abuso psicologico”, non solo l’abuso fisico. Inoltre gli intervistati hanno giudicato la stessa azione, se eseguita da un uomo, come “dovrebbe essere illegale”. Tra queste azioni, figurano i “pugni” e le “pressioni per il sesso”.

La cosa forse più preoccupante, che arriva addirittura ad inficiare numerosissimi – se non proprio la stragrande maggioranza – degli studi e delle ricerche pubblicati su questo tema, è che Follingstad, DeHart e Green (2004) hanno scoperto che il pregiudizio di genere anti-maschile si riscontra anche tra gli psicologi. A 449 clinici (56% maschi), di età media 52 anni, sono stati infatti somministrati due scenari che descrivevano il contesto e i comportamenti psicologicamente abusivi con i generi invertiti. Gli psicologi valutavano il comportamento perpetrato dagli uomini come più abusivo e più grave rispetto all’uso delle stesse azioni da parte della moglie. I fattori contestuali (frequenza/intenzione/percezione del destinatario) non influenzavano in alcun modo questa tendenza.

Questo mostra come tutti i vari studi che parlano di una maggiore gravità o maggiori lesioni o ferite (injuries) della violenza maschile sulle donne rispetto a quella femminile sugli uomini, in realtà non considerano veramente l’effettiva entità delle lesioni e delle ferite, ma solo una percezione soggettiva minimizzante erronea e filtrata da bias sessisti delle stesse. Pertanto si ha, anche nei rari casi in cui viene riconosciuta l’esistenza di una violenza, un under-reporting della gravità della violenza stessa (con discorsi del tipo “sì ma la violenza sulle donne è più grave” anche e soprattutto quando ciò non corrisponde al vero).

Tornando allo studio, tra gli elementi valutati come significativamente più abusanti se messi in atto da un uomo, vi erano: “obbligare il partner a rendere conto in ogni momento dei propri spostamenti”, “divieto di guardare persone dello stesso sesso”, “minacciare di far ricoverare in un istituto” e “commenti denigratori o dispregiativi”. La significatività di questi item era indipendente dal sesso dello psicologo o della psicologa.

Come concludono Follingstad e colleghi: “l’associazione stereotipata tra aggressività fisica e maschi sembra estendersi all’associazione tra abuso psicologico e maschi” (p. 447). Sfortunatamente, molte volte questo porta purtroppo a gravi e seri problemi. Pensiamo, ad esempio, alla recidiva tra le donne.

La recidiva per la violenza agita da donne era infatti sotto-riportata addirittura dai clinici:

Coontz, Lidz e Mulvey (1994) hanno riscontrato che le previsioni cliniche di pericolosità fatte nei pronto soccorso psichiatrici sottovalutano costantemente la pericolosità femminile. Le previsioni secondo cui un uomo non sarebbe stato violento erano corrette nel 70% dei casi, mentre invece per le donne lo erano solo nel 55% dei casi.

Skeem et al. (2005) hanno fatto valutare a 147 clinici 680 pazienti di un pronto soccorso psichiatrico il rischio di violenza futura. I professionisti della salute mentale di entrambi i sessi erano “particolarmente limitati nella loro abilità di valutare il rischio di violenza futura dei pazienti di sesso femminile” (p. 173). Infatti, il “tasso di falsi negativi” (cioè il tasso di coloro che venivano giudicati a basso rischio ma che in seguito commettevano nuove violenze) per le pazienti donne era il doppio di quello dei pazienti uomini (p. 181). Il criterio per la violenza era la violenza fisica: il paziente doveva essere stato segnalato per aver “messo le mani addosso a un’altra persona con l’intento di farle del male, o aver minacciato qualcuno con un’arma in mano” (p. 178). Questo risultato è stato riscontrato in tutti i gruppi professionali e non era correlato al tipo di violenza. In altre parole, il risultato si è verificato sia per la violenza generale che per la violenza grave.

Nello studio di MacArthur sulla Valutazione del Rischio di pazienti psichiatrici rilasciati in libertà, Robins et al. (1987) hanno riscontrato che le donne avevano la stessa probabilità degli uomini di essere violente durante il primo anno dopo la dimissione. Robins e i suoi colleghi hanno attribuito la sottostima della violenza delle donne al fatto che essa è meno visibile “poiché si verifica in modo sproporzionato in casa con i membri della famiglia” (p. 182).
Ma può anche essere semplicemente per gli stereotipi di genere sull’infantilizzazione della donna, vista come innocua e da proteggere (al pari dei bimbi; pensiamo infatti al “prima donne e bambini”), e pertanto non pericolosa.

Anche in questo caso, questi risultati dovrebbero farci prendere cum grano salis tutte quelle affermazioni femministe o ginocentriche che affermano che le donne violente “compiano meno atti di violenza rispetto agli uomini violenti”, visto che la valutazione della recidiva (ovvero della frequenza di atti violenti da parte di una persona già riconosciuta come violenta) è evidentemente falsata e afflitta da bias percettivi.

Come vediamo, pertanto, la violenza sugli uomini da parte delle donne è parimente frequente, le incidenze sono simili e le conseguenze (incluse ferite, lividi e lesioni) sono parimente gravi.
Su questo punto, è evidente come moltissime conseguenze fisiche rimangano nel sommerso, visto che la società ha addestrato i medici a chiedere insistentemente alle donne – ma non agli uomini! – che si rivolgono a loro se sia stato il partner a causare le ferite, i lividi o le lesioni che notano. Quando però si fanno le stesse domande anche agli uomini, emerge come una parte significativa delle ferite e delle lesioni per cui gli uomini si rivolgono ad un intervento di pronto soccorso o comunque ospedaliero è dovuto proprio all’aver subito violenza domestica, esattamente come accade per le donne. Infatti, un pronto soccorso urbano in Pennsylvania (Mechem, Shofer, Reinhard, Hornig & Datner, 1999), che ha chiesto informazioni sulle origini delle lesioni e ferite maschili, ha riscontrato che almeno il 13% degli 866 pazienti maschi era stato ferito dalla propria partner.

 

Conclusioni

Concludendo, come vediamo è necessario cambiare radicalmente il nostro modo di intendere la violenza domestica: come un fenomeno simmetrico e bidirezionale e non unidirezionale, come agito da donne tanto quanto da uomini, che è parimente grave e frequente, che spesso non viene considerato quando affligge gli uomini per via del sessismo giuridico e del bias degli arresti, come un fenomeno che non possiamo valutare dalle statistiche ufficiali del numero di omicidi perché queste ultime sono inaffidabili (visto che un morto è un morto, non ha scritto in fronte né che è stato ucciso né da chi è stato assassinato, e pertanto prima di essere riconosciuto come vittima di omicidio da una specifica persona è necessario che ci siano: ritrovamenti di corpi e non semplici scomparse non indagate approfonditamente, autopsie e accertamenti accurati, sospetti, indagini, interrogatori, arresti, incarcerazioni e condanne dell’effettiva autrice dell’omicidio o dell’induzione al suicidio – ancora più difficile da provare! –; tutte queste sono ovviamente variabili che sono afflitte dal sessismo giuridico e da numerosi bias anti-maschili, che inquinano pertanto le statistiche ufficiali rendendole non veritiere del fenomeno effettivo).

Similmente, anche la prevenzione della violenza domestica non passa da “Educazioni al Rispetto” (che comunque dovrebbero anche solo per principio essere estese alle vittime maschili), copie carbone del Modello Duluth che come abbiamo visto non risolve il problema ma anzi spesso lo aggrava, bensì da interventi basati sulla prevenzione e il trattamento dei disturbi di personalità, dell’attaccamento insicuro, dei traumi, delle dipendenze e della disregolazione emotiva.

Fino a che questi concetti non saranno passati e resi applicativi, purtroppo le persone continueranno a morire.
Le donne, da uomini che dopo averle uccise piangeranno “lacrime di coccodrillo” grazie all’educazione al rispetto. Gli uomini, forse mai ritrovati e considerati per sempre persone scomparse per via della Missing White Woman Syndrome, o se ritrovati, dipinti dalle false accuse post-mortem come “violenti” uccisi da donne “esasperate” che avrebbero agito “per legittima difesa” e pertanto assolte, anche e soprattutto nella stragrande maggioranza dei casi, che vede l’assassina come la vera carnefice e non una povera vittima che si sarebbe “solo difesa”.

 

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