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23 Set 2021  |  0 Commenti

La lunga traversata nel deserto della Sinistra (e Fabrizio Marchi)

«Le femministe vedono gli uomini come i principali nemici, perché gli uomini si sono appropriati ingiustamente di tutti i diritti e privilegi per sé e hanno lasciato alle donne soltanto catene e obblighi. Per loro, la vittoria è guadagnata quando un privilegio goduto in esclusiva dal sesso maschile si concede anche al “gentil sesso”. Le donne lavoratrici hanno un’opinione diversa. Loro non vedono gli uomini come nemici e oppressori, al contrario, pensano agli uomini come ai loro compagni, che condividono con loro la monotonia della routine quotidiana e lottano con loro per un futuro migliore. La donna e il suo compagno maschio sono schiavizzati dalle stesse condizioni sociali…». Con queste parole Alexandra Kollontaj, storica dirigente comunista, risolve la questione femminista all’interno del marxismo nel lontano 1909, in Le basi sociali della questione femminile.

Da allora le cose sono molto cambiate. In tutto il mondo occidentale la sinistra, post comunista e post socialista, è stata colonizzata dalla dottrina femminista. È l’agenda politica delle donne, o meglio femminista, che detta l’agenda politica proletaria. Ci è voluto oltre un secolo perché una voce – sto parlando della candidatura di Fabrizio Marchi per le comunali di Roma nel Partito Comunista di Marco Rizzo – nel panorama politico di sinistra nel mondo occidentale, riprenda il pensiero di base espresso da Kollontaj, e lo esprima ad alta voce: i poveri sono i poveri, al di là del sesso! Si tratta di un pensiero talmente semplice e banale che mi vergogno persino io stesso di doverlo spiegare: primo, le donne non sono una «classe sociale»; secondo, poveri e donne non sono due gruppi coincidenti e dunque non possono essere univocamente i destinatari delle preoccupazioni politiche e delle misure di tutela: o l’oggetto delle tutele sono i poveri (uomini e donne indistintamente, donne abbienti escluse) o sono le donne (ricche e povere indistintamente, uomini poveri esclusi).

 

Le donne non sono una «classe sociale». Le donne sono un «gruppo umano», come lo sono i bambini, gli adolescenti, i miopi, i mancini, i biondi o gli anziani. Queste categorizzazioni dei «gruppi umani» sono estranei al concetto di «classe sociale», inteso come insieme delle persone accomunate, almeno in parte, da medesimi interessi, modi di pensare, cultura, condizioni economiche, come lo sono ad esempio la classe operaia, borghese, capitalistica, feudale, popolare o media. Ha un senso definire le donne «classe» soltanto in quanto classifica o raggruppamento di entità di varia natura aventi una o più caratteristiche in comune, ad esempio, la classe dei mammiferi, delle monocotiledoni, dei mancini o delle donne. Il femminismo è riuscito a ingarbugliare una semplice questione semantica, mescola e confonde due accezioni diverse del termine «classe». Le donne, come «gruppo umano», come i biondi o i mancini, sono spalmate in maniera aleatoria (di solito al 50% circa) in tutte le «classi sociali» previamente elencate. E questo è stato un fatto assodato da quando il mondo è mondo, finché la dottrina femminista non infettò, con il suo dogma assoluto di base – uomo/oppressore e donna/oppressa –, il mondo e, per quanto riguarda questo intervento, i movimenti di sinistra.

 

Quando lo scrittore Daniel Defoe pubblica nel 1698 The Poor Man’s Plea [Difesa del povero], appassionata denuncia delle condizioni in cui vivono le classi subalterne, comprende tutti indistintamente, uomini e donne. Quando il povero denuncia l’ingiustizia di un mondo in cui tutte le punizioni «ricadono su di noi: perché noi non troviamo il ricco ubriacone portato davanti al giudice, né il mercante bestemmiatore e lascivo multato e messo in ceppi», è una denuncia che include tutti, uomini e donne. In Moll Flanders, romanzo dello stesso autore, basta che Moll mostri di avere un po’ di denaro perché la sua condizione di deportata in Virginia si trasformi in quella d’una signora in viaggio di piacere e la reduce del carcere di Newgate venga riverita, omeggiata, trattata con ogni riguardo dal capitano della nave e da ogni altro appartenente a quella società signorile. «O denaro, denaro!», scrive ancora Defoe in The Review, «quale influsso tu hai […]. Tu sollevi eserciti, combatti battaglie, occupi città, regni […]. Giustamente sei chiamato il dio di questo mondo». È il denaro che solleva Moll di classe sociale, non la sua essenza in quanto donna (o uomo). Per Gesù Cristo, il “primo comunista”, gli indigenti del primo secolo nella Palestina sotto il dominio dell’Impero romano erano «i poveri, gli storpi, gli zoppi, i ciechi» (Lc 14, 13). Nessuna menzione nei Vangeli alla categoria “donne” tra i gruppi bisognosi.

 

Altri esempi, come i previamente citati, possono essere ritrovati nel libro La grande menzogna del femminismo a pp. 108-111 nella sezione I paria della società. Riporto in seguito integralmente un paragrafo sulla questione in merito, che avevo già trattato in un’altra occasione, questione che, ribadisco, è di un’importanza fondamentale, soprattutto per chi aderisce ai postulati di sinistra: “Il cuore del comunismo risiede nella “lotta di classe”. Karl Marx nel Manifesto del Partito comunista scrive: «La storia di ogni società civile esistita è storia di lotta di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in una parola oppressori e oppressi sono sempre stati in contrasto tra loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta». Non è un’idea originale sua. Nella Bibbia (Sir 13, 19) c’è scritto: «Come l’asino che vive nel deserto preda dei leoni, così i poveri sono pascolo dei ricchi». Si può essere più o meno d’accordo, ma questo è il succo da dove nasce tutta la dottrina marxista. Il femminismo scambia le classi sociali per il sesso, tutta la dottrina femminista nasce dal “conflitto dei sessi”.

Nel suo programma nel 1979 il Partito Femminista di Spagna dichiara: «la donna è una classe sociale sfruttata e oppressa dall’uomo». «Tutte le donne, indipendentemente della loro classe, sono oppresse in quanto donne» (Juliet Mitchell, La condizione della donna, pp. 58-59). Citazioni simili abbondano nella letteratura femminista, dogma fondamentale scaturito già durante la prima ondata. In Italia, all’inizio del XX secolo, il Comitato Pro Voto di Torino (1906-1922) proclama: «La distinzione tra femminismo borghese e femminismo proletario è assolutamente arbitraria e insussistente, perché è femminismo la lotta che il sesso femminile tutto quanto è impegnato a combattere contro la supremazia maschile, che dall’individuo alla famiglia, allo Stato, impedisce il libero espandersi della personalità femminile, negandole tutti i diritti ed opprimendola di tutti i doveri…». Questa è la linea di pensiero di tutto il femminismo borghese, che spiega l’indifferenza che provocava in queste donne la lotta proletaria (e dunque anche maschile). Per fare un semplice esempio, la celebre scrittrice aristocratica spagnola Emilia Pardo Bazán (1851-1921) nelle sue opere presta appena attenzione alle disuguaglianze di classe e si concentra sulla denuncia delle disuguaglianze tra i sessi. Intuitivamente si comprende che queste due visioni del mondo sono inconciliabili. Delle due l’una: o i proletari (maschi e femmine) sono la classe oppressa o lo sono le donne (borghesi e proletarie); o i borghesi (maschi e femmine) sono gli oppressori o lo sono gli uomini (borghesi e proletari). Quest’aporia provocò inevitabilmente in alcune femministe proletarie un cortocircuito. Anna Kulisciova (1855-1925) rifiutò di sostenere la dichiarazione del Comitato Pro Voto di Torino (1906-1922) perché «avrei con ciò implicitamente accettato la concezione confusa che considera il movimento delle donne come una questione di sesso, cioè di una massa indistinta».”

 

In conclusione, femminismo e marxismo sono in aperte contraddizione. Ci vuole urgentemente un esponente di sinistra che proclami questa semplice verità. Ci vuole qualcuno a sinistra che difenda l’indigente, al di là della razza o il sesso. Ci vuole qualcuno che esprima dei concetti, talmente semplici e banali, da risultare infantili: che chi legifera e parla di classi sociali in termini di razza è un razzista, e chi legifera e parla di classi sociali in termini di sesso è un sessista (ciò che avviene purtroppo quasi quotidianamente in Parlamento). Ci vuole qualcuno che proclami queste verità nelle sedi pubbliche, nella giunte comunali o nei parlamenti, verità che oggigiorno sono diventate assolutamente proibite dall’ideologia dominante, a causa di un’incomprensibile mancanza di coraggio delle persone per bene. Oggi la verità è il nuovo discorso d’odio. Questa verità deve diventare l’argomento dirimente per la scelta di voto, perché se un partito è infetto dal razzismo tutto il programma politico sarà viziato da questo pensiero, e se un partito è infetto dal sessismo, come lo sono oggi purtroppo la maggior parte di loro dal femminismo, tutto il programma politico sarà viziato da questo pensiero. Le conseguenze in entrambi i casi si presumono nefaste. Ci vuole un candidato che pensi e dica di nuovo cose di Sinistra, ed esprima con coraggio queste semplici verità: che i poveri non sono le donne e le donne non sono i poveri. E questo candidato nelle file di Sinistra, dopo una lunga traversata d’oltre un secolo nel deserto, ha oggi un nome: si chiama Fabrizio Marchi.

 

Santiago Gascó Altaba

 

 

L’amico Santiago Gascò Altaba è l’autore di un’opera monumentale da lui stesso citata nella sua puntuale dichiarazione in mio appoggio, dal titolo “La grande menzogna del femminismo”. Un libro in due volumi che consiglio a tutti di leggere perché è un formidabile lavoro di decostruzione della narrazione femminista, da un punto di vista storico.

Santiago, con un incredibile, immane lavoro di ricerca degno del miglior storico, confuta, decostruisce e disarticola – riportando fatti, dati, numeri, percentuali, statistiche – tutti i dogmi su cui l’ideologia femminista ha rivisitato e riscritto la storia riducendola alla ben nota dicotomia maschi/oppressori, sempre, comunque e ovunque e femmine/oppresse, sempre, comunque e ovunque.

Una rivisitazione (e una deformazione) ideologica che è stata elevata a vera e propria Verità Assoluta e che, secondo Santiago, è peraltro incompatibile e inconciliabile, come lui stesso ha spiegato, con il marxismo e con una visione di classe della realtà e della storia.

Il suo è un contributo eccezionale – proprio perché scientifico nel vero senso della parola – all’apertura di un dibattito laico e di un confronto dialettico su un tema che oggi è di fatto un tabù incontestabile e incriticabile, quasi si trattasse di una scienza esatta.

Lo ringrazio di cuore per le parole che ha speso nei miei riguardi.

(Fabrizio Marchi)

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