preload
25 Ago 2021  |  0 Commenti

Attitudine passivo-aggressiva e vittimismo

Un po’ di giorni fa una nota testata online ha pubblicato un video in cui si vede una donna che aggredisce verbalmente un agente della polizia municipale per non aver permesso a lei e alla famiglia di transitare con l’auto all’interno di una zona pedonale. La protagonista in questione prima provoca l’agente avvicinandosi ad un palmo dal suo naso con spiccato tono di sfida (come a dire “mettimi le mani addosso, se hai il coraggio”) e subito dopo, vedendosi ingnorata, si getta per terra come se l’agente l’avesse appena colpita, cosa talmente inverosimile che alla fine finge di aver avuto un malore e chiede aiuto.

 

Solo uno sfoggio di innate doti attoriali? Forse la talentuosa aspirante attrice, non avendo trovato spazio dentro qualche fiction dozzinale, ha sfruttato l’occasione per mettere in atto il suo dramma sperando nel plauso degli astanti?

No, attitudine passivo-aggressiva farcita da squallido vittimismo.

 

Qualche giorno prima un altro video, girato al centro di Milano e pubblicato su YouTube (poi rimosso per “violazione dei termini di servizio”), mostrava una ragazza ubriaca e a torso nudo che, delirando in preda ai fumi dell’ “emancipazione sessuale” – forse ancor prima di quelli dell’alcol – inveiva contro i presenti. A suo dire avevano indugiato troppo nel guardarla e forse avevano commentato il suo stato, per lei evidentemente legittimo ma per chiunque intorno di oggettiva inopportunità rispetto al contesto. Ad un certo punto la si vede raggiungere un gruppo di ragazzi dall’altra parte della strada e cominciare a colpirne uno con una serie di pugni al viso, senza che il ragazzo in questione, fortunatamente, reagisca in alcun modo a quella folle e violenta aggressione.

 

Legittima autodifesa a seguito di una violenza fisica nei suoi confronti?

No, attitudine passivo-aggressiva farcita da squallido vittimismo.

 

Solo due esempi tra tanti altri le cui immagini a volte girano sul web ma più spesso emergono solo da racconti.

Quanto senso di impunità deve regnare nella coscienza di una persona per far sì che possa spingersi a provocare pesantemente, in maniera fisica o verbale, qualcuno per strada senza aspettarsi una reazione equa? Ma soprattutto, cos’è che genera questo senso d’impunitá?

 

Ciò che ci distingue dai bambini, una volta diventati adulti, è che la responsabilità delle nostre decisioni e azioni ricade solo e soltanto su noi stessi e che seppur influenzati dagli altri o dagli eventi intorno a noi, nel bene o nel male, siamo (o dovremmo essere) abbastanza maturi per riconoscere che la scelta della direzione da prendere è un nostro esclusivo onere, indubbiamente ciò prevede delle conseguenze, buone o cattive, al quale poi dover far fronte.

Questo spesso vale solo in parte, quantomeno per una buona percentuale della popolazione femminile cui pare venga riconosciuto il massimo privilegio solitamente riservato agli infanti e agli incapaci di intendere e di volere, ovvero la deresponsabilizzazione rispetto alle proprie azioni e alle relative conseguenze.

Ma le donne, pur quando il loro comportamento ne farebbe dubitare, non sono né infanti né generalmente individui incapaci di intendere e di volere, per cui trattarle come tali – giustificandone o minimizzando comportamenti spropositati – non può che nutrire quel senso di impunità che rende ammissibile ciò che per gli uomini è invece inammissibile.

 

Tutti possiamo immaginare che gli episodi succitati, a parti invertite, sarebbero probabilmente finiti molto diversamente.

Il primo magari con un fermo di polizia e il secondo con una di quelle risse che partono da frasi del tipo “che hai da guardare?!”, e magari nel commentare questi fatti si sarebbe già pensato e detto, senza remore, che il protagonista “se l’è cercata”, espressione che se riferita ad una donna ormai viene unanimemente bandita (quasi per autocensura).

Nessuna delle due donne, fossero state uomini, avrebbe agito senza considerare l’ipotesi reale di uno scontro fisico con l’interlocutore, né avrebbe pensato di sollevare un diverbio per poi fare la vittima degli eventi.

Invece erano donne, e in assenza di prove video qualcuno avrebbe anche potuto credere che i loro comportamenti scaturissero da un reale atto di violenza nei loro confronti. Fortunatamente abbiamo avuto il riscontro dei filmati per ricostruire incontrovertibilmente i fatti.

 

Considerando gli episodi raccontati e interpretandoli in relazione ai dati sul fenomeno delle false denunce per violenza, stalking o maltrattamenti sporte da donne nei confronti di uomini, c’è da chiedersi se la generale tendenza a fidarsi aprioristicamente della parola detta da una donna (considerata come espressione di verità assoluta in virtù di una presunta innata sincerità d’animo) non nasca da una mistificazione della figura femminile che nella realtà viene contraddetta dai fatti.

 

Siamo sempre vittime? Il dubbio è e deve essere lecito.

 

Ricercando una metafora che ricalchi bene alcuni aspetti del ruolo delle donne in questa società, si potrebbe accostarle ai dopati nel mondo dello sport, con la beffa che i controlli antidoping per le suddette non sembrano essere contemplati. Come se bastasse chiedere “Ti sei dopata?”

e alla risposta “Certo che no!” ribattessimo sollevati “Brava cara, ti crediamo sulla parola.”

 

È tempo di smettere di fare ciecamente affidamento sulla parola solo quando a parlare sono le donne e cominciare ad osservare certi accadimenti senza lenti ideologiche o mistificatorie a fare da filtro, farsi delle domande e cercare delle risposte con il massimo dell’onestá intellettuale.

Non può e non deve esserci “sorellanza” che tenga. Bisogna sospendere il giudizio e offrire il beneficio del dubbio a tutte e tutti, allo stesso modo e nella stessa misura, senza discriminazioni di genere. Fosse anche “solo” per rispetto di coloro che una violenza l’hanno subìta davvero, tra i quali anche molti uomini, le cui storie vengono inficiate e sminuite da chi gioca a fare il lupo travestito da agnello per ottenere un tornaconto personale, che questo sia un rientro economico, la voglia malata di attenzioni, il soddisfacimento dell’ego, spesso la “semplice” vendetta o chissà cos’altro.
La voce delle donne stressa gli uomini e stanca il cervello maschile - Page  2 of 2

Fonte foto: Fidelity Donna – Fidelity House (da Google)

 


Lascia un commento

* Richiesto
** Il tuo indirizzo email non verrà reso pubblico
Markup Controls

 

Aggiungi un'immagine