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12 Set 2015  |  3 Commenti

Noi che non sputiamo su Hegel (e neanche su Marx)

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Elena Dalla Torre, nel suo tentativo di confutazione dell’intervista di Fabrizio Marchi su Femminicidio e violenza di genere, usa argomenti che svelano senso e significato della loro origine.

Fabrizio risponderà da par suo. In questo contributo mi concentrerò su tre temi.

1) La questione della realizzazione umana (maschile e femminile) nel lavoro.

Per Dalla Torre Marchi negherebbe sia la discriminazione femminile sia il fatto che il lavoro sarebbe una componente essenziale del processo di soggettificazione delle donne (non femministe). Sul primo punto, la discriminazione, lascio ad altri l’enunciazione di numeri e statistiche serie (come quella della Bocconi condotta, ironia, proprio da una donna) che dimostrano che, a parità di mansioni e di ore lavorate, le differenze salariali fra uomini e donne sono del tutto insignificanti. Mi limito semplicemente ad osservare che la discriminazione in base al sesso o al colore della pelle o ad ogni altro elemento, è del tutto contraddittoria rispetto alla natura ed alla logica del capitale, il cui unico scopo è il profitto, comunque e da chiunque generato, e che discrimina o meno unicamente in funzione di tale parametro. Qualsiasi imprenditore, se non vuole contraddire se stesso e gli interessi della sua azienda, favorirà semplicemente quei lavoratori che gli consentano di aumentare i profitti, maschi o femmine, bianchi o neri. Se poi la produttività del lavoro femminile fosse inferiore a quella maschile, ciò dipenderebbe da altri fattori (storici, culturali, di genere) dei quali sarebbe pure utile discutere. Ma non ha senso parlare di discriminazione, così come non ha senso parlarne rispetto alla politica (con annesse questioni delle quote rosa), come se ogni formazione politica non avesse come priorità di aumentare i propri consensi e non agisse in tal senso. Forse che imprenditori e partiti sono masochisti? Improbabile, credo. Tuttavia la questione della realizzazione attraverso il lavoro è reale e importante.

Vale la pena riprodurre queste parole semisconosciute di Marx:

«Posto che noi avessimo prodotto come uomini: ciascuno di noi nella sua produzione avrebbe doppiamente affermato se stesso e l’altro. Io avrei
1. Oggettivato nella mia produzione la mia individualità, la sua peculiarità, e dunque tanto durante l’attività avrei goduto una individuale esteriorizzazione di vita, quanto nella contemplazione dell’oggetto avrei goduto la gioia individuale di sapere la mia personalità come potere oggettivo, sensualmente contemplabile, e dunque sopra ogni dubbio sublime.
2. Nel tuo godimento o nel tuo uso del mio prodotto, io avrei immediatamente il godimento, tanto della coscienza di aver soddisfatto nel mio lavoro un bisogno umano, quanto di avere oggettivato l’essere umano e dunque di aver procurato il suo oggetto corrispondente al bisogno di un altro essere umano;
3. di essere stato per te il mediatore fra te e il genere, dunque di essere saputo e sentito da te stesso come un complemento del tuo proprio essere e come una parte necessaria di te stesso, quindi di sapermi confermato tanto nel tuo pensiero quanto nel tuo amore; di aver creato immediatamente nella mia individuale esteriorizzazione di vita, dunque di avere immediatamente confermato e realizzato nella mia attività individuale il mio vero essere, il mio umano, comune essere (mein menschliches, mein Gemeinwesen) »(1)

Marx sta chiaramente parlando del lavoro non alienato, quello in cui il lavoratore è proprietario dei suoi mezzi di produzione e dei frutti del suo lavoro, i quali, in quelle circostanze, non sarebbero prodotti astrattamente per un mercato altrettanto astratto e sconosciuto, ma direttamente commissionati dal consumatore in un rapporto diretto col produttore.

È solo attraverso questo rapporto che il lavoro realizza l’essere umano (maschile e femminile), in quanto si proporrebbe direttamente come mediatore fra gli uomini e complemento l’uno dell’altro entro una struttura sociale inevitabilmente di tipo comunitario.

L’opposto cioè di questa struttura socioeconomica nella quale la funzione di mediazione fra gli uomini è stata assunta prima dalla merce e poi direttamente dal denaro. Come tutto ciò possa oggi realizzarsi, in società complesse come le nostre, è altra questione. Credo che, in quanto l’uomo è soggetto sociale e politico, secondo la celebre definizione di Aristotele, una soluzione potrebbe essere individuata nel far percepire ai lavoratori l’importanza e l’utilità per gli altri di ciò che fanno, sia pure in una condizione di non proprietà immediata, diretta e individuale, dei mezzi produzione.

Occorrerebbero da un lato forme di proprietà cooperativa o di reale partecipazione alla proprietà dell’azienda ma anche, dall’altro, una reale conoscenza di ciò che si sta fabbricando, dei possibili utilizzi con annessi vantaggi e rischi, dei soggetti a cui tale produzione è indirizzata. Impensabile, naturalmente, in un sistema il cui scopo è la massimizzazione immediata dei profitti e la riproduzione allargata del capitale e dei rapporti ad esso sottesi. Non ha davvero senso, allora, parlare di realizzare se stessi nel lavoro salariato, perché esso non possiede nessuna di quelle condizioni di cui parlava Marx. Tanto meno oggi quando, rispetto all’ottocento, il capitale ha colonizzato l’intero reale e l’immaginario.

Quella realizzazione di cui parla Dalla Torre, si riduce così ad un falso obiettivo, perseguibile, al massimo, per pochissimi e fortunati (e magari anche bravi) soggetti individuali, (ed anche questo sarebbe tutto da vedere in forza, appunto, dei rapporti alienati che il capitale e la merce producono anche nei ceti privilegiati) ma mai come orizzonte sociale o di genere. Ne risulta che il concetto di realizzazione come espresso nell’articolo è tutto interno ai rapporti capitalistici, cioè falso e ingannevole per gli stessi soggetti che lo volessero perseguire come un fine, in questo caso le donne. La questione del dover essere maschile, a cui si accenna nell’articolo, si riduce quindi a questo: il lavoro è sentito dagli uomini come un dovere, duro ma necessario, perché sono essi che, in linea di massima, hanno finora provveduto alle necessità economiche e di sussistenza della famiglia, la donna essendo delegata ad altre non meno importanti mansioni.

L’equivoco e l’illusione ottica da parte femminile nasce dal fatto che stiamo parlando delle moderne società industriali (o, ormai, post-industriali), mentre nelle forme economiche precedenti il problema non si poneva. Nella società che Ivan Illich definiva vernacolare, uomini e donne cooperavano all’economia familiare con compiti diversificati in funzione del sesso. C’erano lavori da maschi e da femmine anche nel settore allora prevalente dell’agricoltura, ambedue ugualmente utili, e il problema della discriminazione non si poneva. È affiorato invece quando, con la standardizzazione richiesta dalla produzione industriale, gli individui sono stati considerati soggetti neutri per lavori neutri e donne e uomini sono stati fatti entrare in competizione.

Nel contesto attuale si può anzi dire che se esistono ancora lavori non mercificati, e quindi non alienati e alienanti, sono quelli della cura personale nell’ambito familiare, ancora per lo più appannaggio femminile. Le donne si sono sentite discriminate perché finora dipendenti dal salario maschile, ma non considerano che quel salario formalmente pagato all’uomo era in realtà salario familiare di cui anch’esse hanno sempre largamente disposto, come e più degli uomini. Credo che sulla questione lavoro ci sarebbe un ampio spazio di collaborazione fra i sessi in termini di obbiettivi, purché se ne riconosca l’essenza. Credo insomma che, anziché perseguire la falsa emancipazione del lavoro salariato, le donne dovrebbero invece battersi, insieme agli uomini, per il riconoscimento sociale del loro lavoro in ambito familiare, ferma naturalmente la libertà di scelta. Ma, tranne rare eccezioni (Nancy Frazier, ad esempio), il femminismo, dell’uguaglianza e della differenza, non può concepire obbiettivi come quello accennato perché le sue concezioni sono inscritte interamente nell’ambito del pensiero e della logica capitalistica, anche quando pensa di esserne immune. Scrive ad esempio Cinzia Arruzza:

«Mettiamo che a un livello meramente astratto […] gravidanze e parti potrebbero essere interamente meccanizzati, che l’intera sfera delle relazioni emotive potrebbe essere mercificata ed espletata attraverso servizi a pagamento. Insomma, mettiamo tutto questo. Si tratta di una visione credibile sul piano storico? L’oppressione di genere può essere sostituita così facilmente da altre forme di gerarchia che abbiano la stessa presa, appaiano altrettanto naturali, siano altrettanto radicate nella psiche e nei processi di formazione soggettiva? Qualche dubbio è più che legittimo».(2)

Ciò che emerge da questo esempio non è l’origine sociale delle discriminazioni di genere. Fra queste sarebbero infatti anche le gravidanze e i parti, di cui si auspica la meccanizzazione con lo scopo di liberare la donna (da chi e cosa, se non da se stessa?). Allo stesso modo la mercificazione e la sostituzione con lavori a pagamento delle relazioni emotive (penso voglia dire quelle che implicano un lavoro di cura, come la maternità o l’assistenza agli anziani, cioè attività tipicamente o esclusivamente femminili), non è giudicata sbagliata o inumana, ma semplicemente non credibile in una società capitalista. Eppure è proprio il capitalismo che sta realizzando ciò che la Arruzza auspica, ossia la mercificazione di ogni aspetto della vita. Il pensiero femminista finisce, ancora una volta, per coincidere con l’operato del capitale. Del resto anche Luisa Muraro, importante filosofa femminista e animatrice della comunità filosofica Diotima, è costretta ad ammettere che un effetto del femminismo consiste nel fatto che «le tecniche del potere si sostituiscono all’autorità tradizionale delle donne nel lavoro di cura..» (3)

2) La questione della dialettica fra sessi e classi.

La Dalla Torre nega l’affermazione di Marchi secondo cui il femminismo ha preso a prestito da Marx il concetto di lotta di classe come il filo rosso che attraversa tutta la storia umana sostituendo però i soggetti agenti in questo movimento dialettico: non più la lotta fra classi ma fra sessi, identificando il sesso maschile come oppressore e il femminile come oppresso. Per farlo si richiama a Carla Lonzi ed al femminismo differenzialista, per il quale a) il femminismo non poteva ridursi ad una semplice sostituzione della dialettica dei sessi con quella delle classi, e b) il femminismo radicale e separatista avrebbe svincolato non solo la donna ma anche l’uomo dal dominio fallico, e avrebbe per ciò dissociato la mascolinità dall’esercizio del potere e dell’oppressione.

Risulta evidente che le affermazioni a) e b) sono contraddittorie e incompatibili.

Per Marx, avesse torto o ragione è altro problema che qui non affronto, il proletariato è l’unico soggetto sociale in grado di produrre un sistema ideologico fondato su una coscienza non falsa. Lo è in quanto portatore sulla sua pelle della realtà di sfruttamento dei rapporti di produzione capitalistici, finalmente resi palesi rispetto ai sistemi di produzione precedenti che li mascheravano dietro ai variopinti rapporti personali fra servo e signore. In tal senso il proletariato è, per Marx, la classe davvero universale il cui destino è, liberando se stessa, di liberare tutto il genere umano, compresa la borghesia invischiata anch’essa, ed in certo senso anch’essa alienata, nei rapporti di produzione da lei stessa creati e producenti ciò che definisce falsa coscienza.

Per la Lonzi, dunque, le donne assumono nella dialettica sociale la stessa identica posizione che il proletariato assume per Marx. E, si badi bene, non solo da un punto di vista sociologico, ma anche filosofico e antropologico. La già citata Luisa Muraro, scriveva infatti su Noi Donne (Dicembre 1999):

«le donne sono in posizione per sapere qualcosa che gli uomini non riescono ad articolare in parole sensate. Riguarda il sesso maschile con tutta la sua gamma di significati […] le donne sanno la sua pochezza, la sua inermia, la sua intermittenza».

Il maschile non sarebbe capace di conoscere se stesso ed esprimerlo sensatamente (falsa coscienza), senza l’intervento liberatore e veritativo del femminile, il quale, beninteso, agirebbe in forza di una missione universale. Prosegue infatti la Muraro «la verità femminile si ispira non alla volontà di castrare gli uomini […] ma proprio all’intelligenza dell’amore». È, specularmente, quello che le donne hanno sempre rimproverato agli uomini: rappresentarle secondo la propria immagine e pretendere che quell’immagine sia vera e universale. Il femminismo della differenza non intende valorizzare il femminile sganciandolo dalla rappresentazione degli occhi maschili, intende invece semplicemente ribaltare il concetto, delineando quindi una lettura della differenza sessuale come superiorità del femminile sul maschile.

La pretesa di porsi come forma di pensiero e di azione universale, capace di rappresentare e descrivere anche l’universo maschile (e di liberarlo dalla sua intrinseca fallocrazia), non può non possedere un presupposto, o quanto meno considerarsene depositario. Lo sguardo sulla realtà dovrà tendenzialmente possedere un carattere di oggettività, ossia cercare di porsi da un punto di vista esterno all’oggetto di indagine, con lo scopo di coglierlo e rappresentarlo scevro da sensazioni e sentimenti soggettivi, segmentarlo, dividerlo per poi ricomporlo, alla fine del processo, completo dei nessi logici interni, individuati ed esplicitati. È tipicamente il modo maschile di porsi di fronte alla realtà da conoscere, opposto a quello femminile.

«La coscienza matriarcale che osserva non deve essere confusa […] con il distanziarsi della coscienza maschile che porta alla scienza e all’obbiettività; essa viene diretta da sentimenti e intuizioni concomitanti fondati su processi semi-consci, con il cui aiuto l’Io si orienta con una forte partecipazione di tendenze emotive. […] Si tratta di un tipo di percezione totale a cui prende parte tutta la psiche, nella quale l’Io ha il compito di condurre la libido verso l’evento vitale osservato e di rafforzarlo, più che astrarre da esso e giungere così ad un ampliamento della coscienza.» «Per la coscienza lunare [femminile. ndr] la conoscenza è al di là dell’affermazione, del resoconto e della testimonianza. È come un possesso interiore che si sottrae facilmente alla discussione poiché il processo conoscitivo interiore, entro il quale si trova questa conoscenza, non è esprimibile adeguatamente e può essere trasmesso molto male a qualcuno che non lo abbia sperimentato». «Le conoscenze della coscienza matriarcale non sono indipendenti dalla personalità che le sperimenta, non sono astratte e prive di emotività, poiché essa mantiene il legame con quelle zone dell’inconscio da cui quelle derivano. Quindi possono essere spesso in contrasto con il conoscere della coscienza maschile, fatto di contenuti consci, idealmente isolati ed astratti, privi di emotività, dotati di generale indipendenza dalla personalità». (4)

Luisa Muraro rivendica esplicitamente questo tipo di approccio. Nella politica delle donne,

«il primo posto viene dato alla pratica del partire da sè […] non facile da far intendere a chi non la conosce in prima persona. Il partire da sé è un pensare non in base ad una rappresentazione ma ad un rapporto vissuto personalmente fra sè e ciò che è in questione, esplicitandolo: io dove sono, che cosa desidero, che cosa m’interessa di questa faccenda. È come schiodarsi da una fissità di dentro e fuori, io e gli altri, nel tentativo di situarsi non astrattamente»; «il personale è politico, non c’è separazione tra pubblico e privato». «Se una è femminista, per lei è importante che ci sia libertà per ogni donna che viene al mondo, libertà di pensare e di agire in rispondenza ai propri desideri e, prima ancora, libertà di desiderare senza misure stabilite da altri: che sia lei, la singola, l’interessata, a dire e decidere quello che la riguarda». (5)

A parte che di una simmetrica libertà maschile non esiste traccia, come se gli uomini la possedessero da sempre, queste sono parole importanti, da tenere in mente quando tratteremo dei caratteri del capitalismo attuale. Intanto possiamo dire, però, che è impensabile che un approccio così soggettivo e difficile ad essere esplicitato per le donne stesse («Questo tema si trova infatti sul confine fra dicibilità e indicibilità, come del resto molta parte, non sappiamo quanto grande, dell’esperienza femminile» scrive la stessa Muraro(6)), possa davvero contribuire al raggiungimento di una verità condivisa, sugli uomini e dagli uomini, ma anche sulle donne stesse e soprattutto sulla realtà in generale. La pretesa implicita o esplicita del femminismo che il pensiero femminile sia fonte di verità universale e le donne le liberatrici dell’umanità, si rivela così fallace.

Per concludere questa parte, citerò proprio Carla Lonzi, che in Sputiamo su Hegel scrive «Noi rimettiamo in discussione il socialismo e la dittatura del proletariato. La forza dell’uomo è nel suo identificarsi con la cultura, la nostra nel rifiutarla». Il rifiuto del socialismo della dittatura del proletariato è del tutto legittimo, ma il rifiuto della cultura in quanto costruzione maschile è affermazione pericolosa e densa di implicazioni regressive. Ci torneremo successivamente.

3) Il terzo punto dell’articolo di Elena Dalla Torre su cui voglio soffermarmi, è quello in cui si richiama a Mario Mieli ed ai movimenti omosessualisti.

Per chi non conoscesse la sua opera, Mieli è (è stato) il fondatore del FUORI (Fronte Unito Omosessuali Rivoluzionari Italiani) e uno dei maggiori esponenti, insieme col francese Daniel Guarin, del così detto marxismo libertario. Per Mieli, «l’omosessualità è in se stessa trasgressiva ed eversiva dell’ordine borghese/capitalistico, poiché la sua Norma mortifera ha mutilato la psiche umana, impedendo di lasciar emergere la transessualità connaturata a ogni individuo».

Si propone quindi di dissolvere e ricomporre l’identità umana per approdare a una nuova soggettività androgina e pansessuale. «Nelle tenebre del nostro profondo giace repressa la specie che è transessuale, e il desiderio di transessualità/comunità: l’intersoggettività comunista sarà transessuale»(7). Ma, come nota lo studioso marxista Jaques Camatte, allorché si rimette in discussione l’eterosessualità si pone la premessa affinché qualsiasi limite possa venir superato, e anche se ciò non significa certamente che quel superamento venga agito sempre e comunque, è da quì che la soggettività pansessuale di Mieli può sfociare nella pedofilia e nella pederastia:4

«Noi checche rivoluzionarie sappiamo vedere nel bambino….l’essere umano potenzialmente libero. Noi, si, possiamo amare i bambini. Possiamo desiderarli eroticamente rispondendo alla loro voglia di Eros, possiamo cogliere a viso e a braccia aperte, la sensualità inebriante che profondono, possiamo fare l’amore con loro..»(8)

Ma non solo, chiosa lo stesso Camatte: «perché non dovrebbero esserci anche matrimoni tra uomini o donne ed animali, che sarebbe un modo di superare l’antitesi natura/cultura sul terreno di quest’ultima?» (9)

Non diversamente da Mieli si esprime Carla Lonzi nel Manifesto di rivolta femminile, dove scrive

«Siamo contro il matrimonio. Accogliamo la libera sessualità in tutte le sue forme. Sono un diritto dei bambini e degli adolescenti la curiosità e i giochi sessuali. La donna è stufa di allevare un figlio che le diventerà un cattivo amante. Comunichiamo solo con donne.»

Nell’opera citata, Camatte osserva a proposito delle teorie di Mieli, che le sue concezioni sulla sessualità possano finire «per fondare l’indifferenziazione che il capitale ci riserva, rendendola attuale fin d’ora, cosa che porterebbe alla negazione della specie umana». La liberazione/emancipazione della specie umana non può consistere nella dissociazione fra amore e sessualità fino a teorizzare come liberatoria dell’Eros la soppressione della procreazione naturale, come pensa Mieli. In tal modo si perderebbe «tutta la dimensione specifica, paleontologica e cosmica dell’atto sessuale che si sviluppa nello sfociare-aprirsi procreativo». Si tratterebbe in realtà di una frammentazione dell’essere umano, una sua riduzione a «semplice supporto di diverse funzioni che gli si possono innestare». L’uomo e la donna diventerebbero particelle neutre che «si sessualizzano solo prendendo un sesso al loro esterno», semplici supporti atti a sostenere qualcosa ormai fuori di loro. Esito di questa dissociazione è la riduzione dell’amore a combinatoria sessuale, programmabile a piacere nel «supermercato dell’amore realizzato dal capitale», il quale realizza il paradosso di celebrare la sessualità ed esibire la pornografia nel momento stesso in cui desessualizza sostanzialmente gli esseri umani, ponendo la loro realtà, le loro differenze, fuori da loro stessi, per spogliarli ed appropriarsene. Ciò che Mieli definisce emancipazione è in realtà la «riduzione dei nostri esseri a particelle neutre di capitale che accedono a una realtà-realizzazione grazie a una mediazione-capitale».

Leggendo di seguito le citazioni di Lonzi, Muraro, Mieli sopra riportate emerge con nettezza che hanno tutte un elemento in comune, il rifiuto di qualsiasi limite al desiderio (in particolare femminile), considerato buono semplicemente in quanto esistente, e il conseguente rifiuto di ogni giudizio etico o morale.

Non è un caso che le teorizzazioni del femminismo della differenza (e dei movimenti omosessualisti) si fondino sul rifiuto del Padre e della sua Legge. Se, occorre darne atto, per alcune esponenti di quel filone del femminismo come Sartori Gherardini, il venir meno del Patriarcato e della Legge del Padre non significa immediatamente un nuovo ordine, «quanto piuttosto un aumento del disordine, e il ritorno a forme di regolazione, concettualizzazione, azione, emozione, più arcaiche, sempre più spesso elementari e violente»(10), e che per altre esponenti come Luce Irigary, esistono «due principi dell’essere e della simbolizzazione»(11), l’uno paterno e maschile e l’altro materno e femminile, rimane il fatto che il filone prevalente si è sviluppato in altra direzione, ovvero nel rifiuto di ogni simbolismo paterno visto come oppressivo in sé e nella necessità che esso sia sostituito da quello materno come unica e autentica fonte di conoscenza. Lo nota, commentando l’opera della Muraro, Francoise Collin(12), «non c’è che un solo principio, quello materno, del quale sinora solo gli uomini hanno beneficiato, o si sono appropriati, persino dissimulando e scartando le donne». Ed infatti la Muraro, non solo in accordo con la Lonzi delegittima la cultura umana in tutte le sue espressioni, ma dichiara apertamente che

«Quando nel libri compare, il padre è l’uomo che si affianca alla donna e alla sua maternità, e che lei indica ai suoi figli: questo è vostro padre. In altre parole io non trovo nessuna ragione per difendere la necessità del padre, della legge del padre, pur ammettendo che un uomo, gli uomini, possano invece avere questa necessità.» (13)

Cosa significhi il rifiuto della Legge del padre lo descrive un autore insospettabile, Massimo Recalcati(14), per il quale essa si configura non come pura interdizione ma «come dono della facoltà del desiderio», mentre senza quella legge si afferma il «discorso del capitalista», che sfrutta la convinzione che «il soggetto sia libero, senza limiti, senza vincoli, agitato solo dalla sua volontà di godimento», per illuderlo di poter trovare soddisfazione nel consumo avido di oggetti, quando in realtà, «liberato» dal limite imposto dalla Legge e perciò dal desiderio autentico, ciò che lo spinge è la ricerca della «Cosa assoluta del godimento» (l’incesto materno).

A sua volta, Giancarlo Ricci(15) parla degli effetti della maternizzazione della legge conseguente all’eclisse del simbolismo paterno come «trionfo di un godimento smarrito, barattandolo con un concetto di libertà e di emancipazione in cui tutto è permesso».

Mi fermo qui, rimandando chi fosse interessato ad approfondire ancora, ai miei scritti su Il Covile(16) che trattano delle connessioni fra Capitale e Gender, Femminismo, Omossessualismo, Veganismo.
Risulta già chiaro fin d’ora, però, che la logica e i presupposti filosofici e antropologici del femminismo sono inscritti interamente in quelli del Capitalismo assoluto attuale, emancipatosi dai limiti esterni delle sue fasi iniziali di sviluppo (le religioni, il patriarcato ed anche le classi in quanto portatrici di una loro weltanschaung non direttamente ad esso sovrapponibile).

«In una disgregazione integrale sia dell’Io, sia del Super-Io [configurazione tipica della psiche attribuite dal femminismo al Patriarcato. N.d.r.], l’antropologia proposta dal capitalismo assoluto-totalitario è, su ogni fronte, quella della destrutturazione […] dell’ego cogitans cartesiano, destrutturazione volta a instaurare l’egemonia assoluta del desiderio illimitato, funzionale alla logica del cattivo infinito dell’accumulazione»(17).

Verità soggettiva, illimitatezza e libertà del desiderio, ritorno alla madre e rifiuto del limite paterno, esaltazione oppure rifiuto di ogni differenza entrambi cangianti in in-differenza, così la rivoluzione sessantottina e femminista sono diventate funzionali alla logica de-emancipativa del capitale. De-emancipativa perché per attuarsi deve operare una regressione del soggetto all’indistinzione delle origini e re-immergerlo in uno stato di unificazione mistica col cosmo nella quale si perdono le differenze.

______

(1) K. M. Appunti su James Mill, (in Scritti inediti di economia politica, citato in J. Camatte, Il capitale totale, Dedalo Libri, Bari 1976,  pag. 274)

(2) http://www.communianet.org/content/riflessioni-degeneri-3-il-capitalismo-indifferente

(3) Prefazione al libro Diotima, Potere e politica non sono la stessa cosa, Liguori, Napoli 2009.

(4)  Erich Neumann, Psicologia del femminile, Astrolabio, Roma MCMLXXV

(5) http://senonoraquandoreggioemilia.wordpress.com/2011/05/16/intervento-di-luisa-muraro

(6) http://www.girodivite.it/Luce-Irigaray.html

(7) Mario Mieli, Elementi di critica omosessuale, a cura di Paola Mieli e Gianni Rossi Barilli, Giangiacomo Feltrinelli editore, 1999–2014.  La prima edizione del libro risale in realtà al 1977, come rielaborazione della sua tesi di laurea in Filosofia Morale. La data è importante perché a quell’epoca non erano ancora ben visibili gli sviluppi del capitalismo globalizzato e finanziarizzato

(8) In http://www.gris-imola.it/ultime_notizie/Pedofiliaeomosessialità.php

(9) Jacques Camatte, Il disvelamento, La Pietra, 1978

(10) In Piero Coppo, «Note a margine di L’ombra della madre, di Luisa Muraro», in I fogli di ORISS, 29, 2008

(11) Il Pensiero della differenza: Luce Irigary, a cura di Wanda Tommasi, in http://www.filosofico.net/irigary2.htm

(12)  F.C., Il pensiero della differenza. Nota su Luisa Muraro.

(13)  http://www.ecologiasociale.org/pg/dum_fem_muraro3.html

(14)  Massimo Recalcati, Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, Raffaello Cortina Editore, 2011.

(15)  G.R. Il padre dov’era, Sugarco Ediziono, 2013

(16)  Www.ilcovile.it n. 799, 804, 808, 822

(17)  Diego Fusaro, Minima Mercatalia, filosofia e capitalismo, Bompiani, 2013


3 Commenti

Fabrizio Marchi 11:18 am - 12th Settembre:

L’ottimo articolo di Armando in risposta a Elena Dalla Torrehttps://www.uominibeta.org/wp-content/plugins/wp-monalisa/icons/wpml_good.gif

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Lorenzo R 9:41 am - 13th Settembre:

Straordinario, articolato articolo.
Condivisibile in toto, esempio cristallino di pensiero logico e cristallino.
Merita ripetute letture per poter essere appieno metabolizzato, tanto denso è di pensieri profondi ed informazioni non banali.
Grande – e grazie – Armando.

Lorenzo R

Fabrizio Marchi:
L’ottimo articolo di Armando in risposta a Elena Dalla Torrehttps://www.uominibeta.org/wp-content/plugins/wp-monalisa/icons/wpml_good.gif

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Rino DV 8:14 am - 14th Settembre:

Questo intervento di Armando raggiunge la perfezione.
Da tutti i punti di vista.

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