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11 Set 2015  |  9 Commenti

Dominio femminile, oppressione maschile: un nuovo secondo sesso?

Fonte: L’Interferenza

Pubblichiamo volentieri questa analisi di Elena Dalla Torre, docente di lingua e letteratura italiana alla Saint Louis University, nonché studiosa di “questioni di genere”, che riprende questa intervista realizzata al sottoscritto e pubblicata su “Termometro politico” oltre che su questo giornale: Femminicidio e violenza di genere: a chi giova l’ideologia femminista?

Naturalmente i punti di dissenso con l’autrice dell’articolo sono molti e in buona parte di natura strutturale. Sarà mia premura risponderle in modo compiuto e articolato nei prossimi giorni, relativamente a tutti i punti da lei toccati.

Per ora è però doveroso sottolineare un fatto importante e molto, molto raro. Una “intellettuale” femminista ha scelto il dialogo e il confronto (addirittura anche mostrando di condividere, sia pur parzialmente, alcuni passaggi contenuti nell’intervista) con chi, come il sottoscritto, ha sottoposto a critica radicale il femminismo. Non si è rifugiata nella comoda scomunica (lo “spirito dei tempi” glielo consentirebbe…), negli insulti gratuiti o facendo ricorso al pubblico ludibrio, bensì scegliendo appunto la via del dialogo e del confronto logico-dialettico, cosa che personalmente raccolgo con grande soddisfazione e anzi la ringrazio per questo.

Anche questo è un piccolo segnale che ci dice che alcune donne hanno cominciato ad avvertire la necessità di affrontare questi temi oltre le liturgie e gli steccati ideologici in cui sono stati ingabbiati.

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Non sorprende, anzi incuriosisce e solleva dubbi e interrogativi l’intervento di Fabrizio MaElena Dalla Torrerchi, esponente del movimento “Uomini Beta” riguardo alla condizione maschile. La sua è una riflessione sulla difficoltà di essere uomini in una società occidentale dove il successo, il prestigio sociale, la stabilità e le disponibilità economiche costituiscono il modello maschile imperante. Certo, tale modello dominante non è nuovo; esiste da sempre, ma viene qui riproposto da Marchi in una veste del tutto particolare: quella della donna emancipata, prodotto della cultura mediatica neoliberale, neofemminista post-sessantottina. L’intervento qui di seguito costituisce una risposta sintetica all’intervista rilasciata da Marchi, e al suo posizionamento da un lato rispetto alla questione maschile e dall’altro rispetto al femminismo post-sessantottino. Mi propongo in primo luogo di sintetizzare le posizioni di Marchi e in secondo luogo, di colmare alcune lacune insite nella sua argomentazione riguardo al pensiero femminista anni ‘70, e il debito che tale pensiero ha nei confronti della mascolinità.

Prendendo a prestito un vocabolario marxista, Marchi definisce il femminismo una “falsa coscienza”: egli accusa le femministe non solo di essersi vendute alla volontà neocapitalistica ai fini dell’emancipazione sociale, politica ed economica, ma anche di incarnare ora la figura dell’oppressore.(1) L’accusa di Marchi si regge sia sull’uso generalizzato, vago e non storicizzato del termine “femminismo” sia sulla facile dicotomia tra il dominio femminista e il maschio oppresso. E infatti Marchi contrappone da un lato, un soggetto femminile e femminista, liberato, e complice del capitalismo che ha fatto del genere e del differenzialismo un’ideologia, uno strumento di potere. Per dirla con le sue parole: “Il femminismo è un prodotto del capitalismo maturo e nasce oggettivamente come un’ideologia di genere (è nell’etimologia stessa della parola), fondamentalmente interclassista e sessista.”(2) Al polo opposto di questo femminismo capitalista ed “ideologizzato” esiste, sempre secondo Marchi, un soggetto maschile che rimane oppresso e invisibilizzato su un duplice piano: sul piano personale perché “costretto a ‘sbattersi’ per vivere uno ‘straccio’ di sessualità e di affettività all’interno di una relazione uomo/donna” e sul piano lavorativo dove si trova spesso a dare la vita, vittima di fallimenti imprenditoriali o di infortuni sul lavoro.(3)

Sebbene la preoccupazione di Marchi verso tutto un gruppo di uomini emarginati sia comprensibile, le sue argomentazioni vacillano in forza di alcune generalizzazioni che riassumo in tre punti: a. il lavoro è un mero strumento di realizzazione per la donna, mentre per l’uomo rimane una questione ontologica ed etica (un dover essere); b. la disparità tra stipendi di uomini e donne è una falsità, un’invenzione frutto di una manipolazione politica; c. il femminismo è “una sorta di ‘copia- incolla’ della dialettica hegelo-marxiana” che sostituisce “al conflitto fra le classi quello fra i sessi, reinterpretando la storia dell’umanità a senso unico.”(4) Ricorrendo a tali generalizzazioni, Marchi nega sia la realtà della discriminazione di genere sia il processo di soggettificazione delle donne (non femministe), di cui il lavoro è componente essenziale. Marchi rischia inoltre di invalidare la propria argomentazione principale, e cioè, che nella cultura neoliberale uomini e donne non privilegiati, che sono una maggioranza numerica, sono ridotti ad una minoranza assoggettata e sfruttata. Ora, che questo esercizio del potere sia assimilato tout court al femminismo è cosa problematica, così com’è problematico pensare che gli uomini siano inevitabilmente oppressori.

Mi sembra opportuno ritornare alle radici del pensiero femminista anni ‘70 cercando di fare comunque giustizia ad alcune osservazioni di Marchi che paiono legittime, specialmente riguardo alla questione di classe. In quel femminismo anni ‘70 esistevano già delle riflessioni sulla condizione maschile che non sono poi così dissimili da quelle di Marchi. Il punto è piuttosto: cos’è stato dimenticato di quel dibattito? Cosa invece non è mai stato realmente articolato?

Il femminismo anni ‘70 nasceva dai movimenti sessantottini, cosiddetti della Nuova Sinistra.

Prima dell’avvento di tali movimenti, l’UDI (Unione Donne Italiane) aveva dominato la scena femminista politica in Italia avviando battaglie per il riconoscimento del lavoro domestico, l’uguaglianza dei diritti sul lavoro e gettando le basi per future riforme sul diritto di famiglia, il divorzio, l’educazione sessuale e l’aborto. Verso la fine degli anni ‘60 e l’avvento della Nuova Sinistra, il femminismo diventava un fenomeno comunitario improntato sia alla critica del sessismo pervasivo dei gruppi di sinistra parlamentari ed extra, sia allo sviluppo di una coscienza dell’oppressione. Questo femminismo si caratterizzava come femminismo separatista, atto, cioè, a promuovere una politica autonoma, fatta dalle donne e per le donne, contrariamente all’UDI, la cui tradizione era di “doppia militanza.” Tra le esponenti di spicco di questo femminismo cosiddetto separatista ci fu Carla Lonzi, fondatrice di “Rivolta Femminile” e madre della “differenza sessuale,” alla cui tradizione, “nefasta” secondo Marchi, sembra rivolgersi più o meno esplicitamente il suo intervento.

Superata in questa parte del mondo l’era del pane, per dirla con Marchi, rimane da superare invece “l’era del pene” o “cultura del pene” come la chiamava Carla Lonzi. Nella sua opera teorica, Lonzi definiva “cultura del pene” il cosiddetto fallocentrismo ovvero l’organizzazione della cultura intorno a categorie fisse e dicotomiche di genere e sessualità e intorno al misconoscimento della sessualità femminile in quanto indipendente da quella dell’uomo:

La donna clitoridea, affermando una sessualità in proprio il cui funzionamento non coincide con la stimolazione del pene, abbandona il pene a se stesso. Tutto ciò che riguarda il pene non viene più a coincidere con l’espressione del dominio.(5)

Come si evince da questo passaggio tratto da Sputiamo su Hegel, la donna che ha scelto il femminismo radicale e separatista – che Lonzi chiamava “donna clitoridea” – svincola non solo se stessa, ma anche l’uomo dal giogo del dominio fallico. Lonzi esaltava la “donna clitoridea” come il prodotto e il soggetto di una nuova cultura della sessualità in cui il pene (l’organo) non doveva più coincidere con il fallo (il simbolo del potere). Ella dissociava quindi la mascolinità dall’esercizio del potere e dell’oppressione. Lungi dal riprodurre una dialettica hegelo-marxiana, come afferma Marchi, Lonzi ci “sputava sopra” avendo intuito che il femminismo non poteva ridursi ad una semplice sostituzione della dialettica dei sessi con quella delle classi. Al contrario, Sputiamo su Hegel costituisce una critica del sessismo implicito nel marxismo, critica che, per altri versi, era stata intrapresa all’epoca anche dal femminismo materialista francese di Monique Wittig, Colette Guillaumin e Christine Delphy. Secondo Lonzi, “far rientrare il problema femminile in una concezione di lotta servo-padrone quale è quella classista è un errore storico” dal momento che il marxismo contemplava un’organizzazione maschile della società.(6) La stessa scelta di separatismo da parte di Lonzi e del gruppo di “Rivolta” era motivata da un particolare disagio nei confronti dell’assimilazione del femminismo al discorso diffuso di emancipazione culturale e sessuale: “Adesso c’è una smania di consacrazione del femminismo, anzi un atteggiamento promozionale da parte della società.”(7) Al contrario di quello che sostiene Marchi esisteva nel femminismo radicale una certa resistenza all’assimilazione culturale per fini di promozione sociale e politica.

Importa comunque sottolineare come Lonzi avesse già intuito che gli uomini stessi erano vittime della “cultura del pene” e cioè erano loro stessi oppressi. Tuttavia, Marchi sembra ignorare tale postura femminista. Fino a che punto la dissociazione tra pene e fallo ovvero tra mascolinità e oppressione si fosse poi concretizzata in una vera e propria analisi della mascolinità questo rimane incerto. Lonzi, infatti, non intraprese mai una critica della “cultura del pene” dal punto di vista dell’analisi della condizione dei maschi non privilegiati così come studiose afro-americane quali bell hooks o kobena mercer lo hanno fatto per le mascolinità afro-americane. Al contrario la critica di Marchi potrebbe rientrare nell’ambito di un’analisi della mascolinità e della classe soprattutto se meglio sostanziata storicamente e teoricamente su un paio di punti nevralgici. Dalla sua narrazione emergono, a sprazzi, figure di uomini dimenticati ai margini della storia, manodopera della Ricostruzione dell’Italia del dopoguerra quali operai, braccianti e minatori. Quando Marchi si domanda: “Chi è più oppresso, sfruttato o privilegiato? Il minatore che trascorre 14 ore in miniera o sua moglie che sta a casa a badare ai figli o a cercare di arrotondare le entrate familiari con altri lavori?” non significa che egli ignori l’oppressione della donna, ma sottolinea la duplice oppressione di donne e uomini che non hanno conosciuto il privilegio sociale: “Io credo in realtà che la stragrande maggioranza di quegli uomini e di quelle donne vivessero entrambi una condizione, sia pur diversa, di oppressione e sfruttamento.”(8) In questo punto, l’argomentazione di Marchi riprende forza, quando riallinea, cioè, uomini e donne rispetto all’esperienza dell’oppressione pur riconoscendone la differente condizione dovuta al loro sesso. Inoltre Marchi si chiede se forme di sfruttamento odierno come quelle esercitate sul/la lavoratore/lavoratrice precario/a non rendano paradossale il parlare di dominazione maschile o di maschilismo: “Ma quale potere, quale peso specifico, sono in grado oggi di esercitare nei confronti delle donne un operaio, un impiegato, un precario o un disoccupato che oltre a vivere una condizione di marginalità sociale sono anche considerati come dei falliti, dei perdenti, privi di qualsiasi “appeal”?(9) In questa perdita di “sex appeal” sta anche una perdita di autorità che è perdita di identità, perdita che la dissociazione tra pene e fallo di cui parlava Lonzi simboleggia molto bene. Essa, però, se per Lonzi era momento di liberazione da un imperativo fallocratico, può però essere vissuta dagli uomini come una vera e propria “castrazione sociale ed economica” nonché affettiva simile, ma solo in parte, a quella teorizzata da Mario Mieli negli anni ‘70.(10)

Se il femminismo separatista fu impegnato a dare visibilità e dignità al soggetto femminile, ci furono esponenti del movimento femminista sensibili all’impatto che la “cultura del pene” aveva sugli uomini, primo fra tutti Mieli, fondatore del movimento gay FUORI nel 1971. Attivista, scrittore e teorico, Mieli aveva coniato il termine “educastrazione.” In Elementi di critica omosessuale (1977) Mieli teorizzava l’educastrazione come un fenomeno di normativizzazione culturale che investiva l’identità di genere, sessuale e di classe. Mieli conosceva la teoria marxista e quella freudiana e le aveva saggiamente fuse attraverso la rilettura dell’opera di Herbert Marcuse. Sebbene per il teorico l’educastrazione fosse una potente modalità di repressione delle tendenze omoerotiche insite nel soggetto, essa aveva anche una forte componente economica. “Educastrati” per Mieli erano anche tutti quegli uomini appartenenti a ceti sociali inferiori (sottoproletari) che si prostituivano con uomini di classe superiore in cambio del denaro per sopravvivere. L’educastrazione di Mieli, quindi, come metafora sessual-politica tutta al maschile, già descriveva il rapporto complesso tra “oppressori” ed “oppressi” quando le donne erano alle soglie dell’emancipazione sessuale. Come a dire che la figura del maschio oppresso esiste, anche quella da sempre; ma nell’argomentazione di Marchi non si articola in termini omosociali né tantomeno omoerotici, ma solo in termini di differenza sessuale uomo/donna, che lui pone come nuova disuguaglianza, o come mera inversione di ruoli di genere, se non addirittura come sopraffazione dell’uomo da parte della donna.

Noi femministe di oggi, figlie adottive di quel femminismo rivendicativo postsessantottino, e figlie biologiche di quella classe di uomini invisibili ed oppressi, non possiamo che dare un po’ di ragione a Fabrizio Marchi il cui merito è di mostrare che la classe rimane sempre e volutamente un fattore dimenticato nell’analisi della mascolinità, e della trasformazione delle dinamiche di genere. Ciononostante non si può fare a meno di constatare quanto Marchi rimanga vincolato ad una dicotomia dei generi, e ad un linguaggio della differenza sessuale che lui stesso riproduce vistosamente per criticare il femminismo postcapitalista. Marchi fallisce nell’elaborazione di una vera e propria analisi della mascolinità a partire dall’oppressione maschile; questo forse perché dell’analisi di genere, sessualità, razza e classe gli mancano gli strumenti essenziali.

C’è tuttavia anche un aspetto dell’intervista a Marchi che rimane non solo inspiegabile, ma anche un po’ inquietante: parlo delle sue affermazioni riguardo al femminicidio e alla presunta veridicità dei dati che circolano su di esso. Che il femminicidio abbia avuto una risonanza mediatica enorme, anche in forza di rete e social networks, questo è innegabile. L’affermare, tuttavia, che il femminicidio sia mera “invenzione mediatica e politica” pare alquanto problematico. Forse sarebbe il caso di ricordare che, a metà degli anni ‘70, fu la risonanza mediatica che assunse la strage del Circeo a fare sì che lo stupro venisse punito non come crimine contro la morale, ma contro la persona. Questo fu un cambiamento legislativo epocale. Quello che è problematico, semmai, per riprendere il discorso di Marchi, è la spettacolarizzazione del femminicidio ad opera dei media e dei social networks, la quale altro non fa che enfatizzare la donna in quanto vittima oscurando sia l’uomo-carnefice, che l’uomo-vittima, o l’uomo-vittima-carnefice. Il voler evidenziare che anche gli uomini sono vittime di violenze mi sembra più che opportuno, tuttavia affermare che tali uomini subiscono violenza dalle donne sembra in realtà ovviare alla questione più urgente del rapporto tra uomo e dominio. Chi resta da mettere a fuoco, dunque, e con urgenza, è l’uomo, che ancora sfugge alla nostra volontà di sapere. Chi sono quei maschi che uccidono, e perché uccidono? Cos’è andato storto nella loro educazione ad essere uomini e nella loro concezione delle donne? Cos’è andato storto nel loro relazionarsi con l’essere femminile? Quale percezione hanno questi uomini di sé, e della loro collocazione sociale? Quale percezione e rapporto hanno con il potere e l’oppressione? Sono sempre solo carnefici e oppressori, o sono loro stessi vittime e vittime di chi o di cosa? E soprattutto di chi o di cosa hanno paura?

Tali sono i quesiti che mi sarei aspettata da Marchi riguardo al femminicidio, soprattutto in un intervento che si prefigge di parlare delle figure maschili marginalizzate e delle voci maschili silenziate. E invece Marchi si è trincerato dietro ad un facile negazionismo, luogo di eccesso e di attacco difensivo piuttosto che di analisi e riflessione. Dopo quarant’anni da quella rivoluzione socio-simbolica con cui le donne e le femministe potevano affermare di “ricominciare da sé,” oggi sembra più che mai urgente una nuova rivoluzione socio-simbolica: quella dell’uomo che “ricomincia da sé.”

Fonte: http://www.gendersexualityitaly.com/wp-content/uploads/2015/07/10.-DallaTorre.pdf

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1 Fabrizio Marchi and Piotr Zygulski, “Oppressione femminista e questione maschile” Arianna Editrice.it

2 Ibid., 4

3 Ibid., 1.

4 Ibid., 3.

5 Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel e altri scritti (Milano: Scritti di Rivolta femminile, 1972), 111-112.

6 Ibid., 24

7 Ibid., 103.

8 Marchi, “Oppressione femminista e questione maschile,” 3. Enfasi mia.

9 Ibid., 5.

10 Mario Mieli, Elementi di critica omosessuale (Milano: Feltrinelli, 2002).


9 Commenti

Luigi Corvaglia 8:32 pm - 11th Settembre:

La risposta di Elena Dalla Torre all’articolo di Fabrizio: Femminicidio e violenza di genere: a chi giova l’ideologia femminista? .

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doctor doctor 9:11 am - 12th Settembre:

Le argomentazioni di Della Torre nei riguardi della violenza domestica e dell’omicidio delle donne da parte degli uomini sono contestabili e paradossalmente spingono proprio verso l’interpretazione femminista, lei che invece parte dall’idea che occorre conoscere bene le problematiche psicosociali degli uomini che commettono questi crimini (quando è possibile, perché in molti casi si uccidono dopo aver ammazzato la donna).
Non è che se, ad esempio, la Convenzione di Istanbul stabilisce che le motivazioni della violenza degli uomini verso le donne risiedono nel genere e nella volontà di dominio maschile e patriarcale, allora gli uomini picchiano e uccidono le partner per questo motivo. Anche perché è come dire che se la legge da domani stabilisce che il furto operato dagli uomini ai danni delle donne ha come obiettivo il dominio maschile, allora le motivazioni del ladro (fino a ieri il denaro) improvvisamente diventano il genere e la volontà di dominio. Questo inoltre contrasta con quanto detto più avanti quando si chiede che occorre sapere “chi sono questi uomini e perché uccidono”. Paradossalmente se adottiamo l’interpretazione femminista (o di genere) delle condotte aggressive degli uomini sulle donne (ad esempio su 500 autori di reato tra cui stupri, violenze domestiche, omicidi, molestie) non abbiamo bisogno di conoscere questi uomini perché la risposta è sempre la solita: potere, controllo e odio verso le donne.
È così facile, non bisogna faticare, non bisogna mettere in discussione le proprie conoscenze, le proprie teorie quando non coincidono con la realtà (e a me sembra che le paritarie siano molto ostili all’idea di ascoltare gli uomini).
Quanto detto mi sembra decisamente rafforzato quando Della Torre sostiene che “affermare che tali uomini subiscono violenza da parte delle donne sembra in realtà ovviare alla questione più urgente del rapporto tra l’uomo e il dominio”. Possiamo domandarci: “e perché dovrebbe essere più urgente”? sulla base di quali dati, riflessioni, teorie o ricerche dobbiamo anteporre il rapporto uomo-dominio alla violenza femminile (che secondo le riflessioni di Della Torre sembra indenne dal dominio – altro assunto che si rifà alle teorie femministe)? Della Torre non lo spiega, piuttosto si interroga sulla storia di questi uomini che possa averli portati ad essere violenti con le donne. Se però l’autrice avesse letto un po’ di ricerche sull’argomento (se lo ha fatto non traspare dall’articolo) saprebbe che vi sono moltissimi dati a disposizione; il problema è che tali ricerche non si basano sulle teorie femministe ma prendono in considerazione i risultati della psicologia, delle condizioni sociali, delle predisposizioni genetiche e della biologia, tutte cose che le teorie femministe guardano con intensa ostilità.
Tra l’altro, come ho già detto precedentemente, parlare di dominio (e usare le teorie femministe per spiegare il rapporto degli uomini con il dominio è inutile visto che si conosce già la risposta) non produce alcuna conoscenza perché il desiderio di controllo, oltre ad essere presente in tutti gli esseri umani, rischia di confondere le motivazioni degli uomini con gli effetti secondari che provocano sulle vittime.
Prendiamo a questo riguardo lo stupro. Secondo le teorie femministe le motivazioni che portano un uomo a stuprare una donna non sono sessuali ma di dominio e di controllo. Questa affermazione si è diffusa così capillarmente da essere divenuta “saggezza popolare” tuttavia rischia di confondere le motivazioni dello stupratore (ad esempio sessuali) con gli effetti sulla vittima che lui non ha considerato (il suo sentirsi controllata e dominata).
La conseguenza è che se una persona adotta le teorie femministe per spiegare il comportamento dell’uomo farà combaciare il vissuto della donna con le motivazioni dell’aggressore, trovando falsamente conferma alle sue credenze.
Vi inoltre un altro errore molto grave nell’argomentazione di Della Torre ossia quando sostiene che parlare delle violenze femminili serve ad ovviare la questione del rapporto uomo-dominio, anche se la questione è importante. Anzitutto (almeno nella mia esperienza) quando si sollevano queste richieste spesso la conseguenza è quello di mantenere inalterato il dibattito (in altre parole, si sostiene che la violenza femminile è sì importante ma solo nel momento in cui se ne accenna per un secondo poi bisogna occuparsi di cose più urgenti, come il rapporto uomo-dominio); la conseguenza è che spesso si rimane al punto di partenza e chi voleva proporre un punto di vista diverso vede squalificata la propria posizione senza alcuna ragione concettualmente o scientificamente valida.
In secondo luogo, parlare delle donne violente verso gli uomini è importante perché se si leggessero le ricerche (come in questo sito si è fatto) si vedrebbe che esse sono tanto violente se non più violente degli uomini (e sono stati pubblicati dati per 35 anni). Il problema principale però è che simili risultati minano tutto l’impianto teorico femminista che vede nella cultura patriarcale l’unica responsabile delle violenze e le motivazioni che spingono uomini e donne a infliggersi danno; ma se non si affronta questo argomento come si può parlare del rapporto che sussiste tra uomini e donne e dominio (ammesso che questa sia la motivazione alla violenza, ma spesso non lo è, mentre inisitere sul dominio presume che la motivazione sia già stata trovata)? Non importa quanto possono essere sofisticati gli studi, se si escludono le variabili chiave la rappresentazione della realtà sarà sempre distorta e gli interventi studiati per prevenire a arginare i fenomeni saranno fallimentari, così come lo sono tutti quelli che intendono prevenire il cosiddetto “femminicidio” (che “casualmente” non si applica mai a donne che uccidono le partner all’interno di una relazione omosessuale ed aventi le medesime motivazioni).
A tale riguardo, e qui concludo, vorrei spendere due parole su quei gruppi di discussione e su coloro che svolgono gli interventi nelle scuole (dalle elementari alle superiori) attuando dei progetti di “prevenzione” dei femminicidi.
Capita che, nonostante questi progetti vengano descritti come necessari e utilissimi, sentiamo parlare ogni anno di omicidi di donne compiuti dai partner (o ex partner). Spesso la reazione delle operatrici e delle paritarie è che ci sono resistenze culturali enormi, che occorre molto lavoro da fare e che bisogna intervenire quanto prima dato che la cultura maschilista è ovunque e influenza molto i bambini e i ragazzi.
Questi programmi in realtà non servono a nulla a mio avviso, se non a sperperare denaro pubblico che potrebbe essere usato più proficuamente.
Anzitutto dire che il fallimento del programma sia dovuto alle resistenze della cultura patriarcale è una sciocchezza perché i destinatari dell’intervento sono bambini o adolescenti e non uomini adulti, dunque non si capisce in che modo un progetto di prevenzione volto, ad esempio, a bambini delle primarie possa influenzare le sorti di una donna adulta che sta terminando una relazione in questo momento. Misteri di genere.
Ma soprattutto il progetto è destinato al fallimento perché il numero di uomini che uccide la partner è così esiguo che quasi sicuramente non si troverà uno studente potenziale femminicida nelle classi esaminate.
Ogni anno vengono uccise dalle 80 alle 100 donne. Supponendo che vengano uccise tutte per questioni di “genere”(e così non è) possiamo verificare che su circa 25.000.000 di donne adulte abbiamo 1 donna uccisa ogni 249.999 donne che non vengono uccise. Ciò implica che per trovare un potenziale femminicida (1) io devo per lo meno fare prevenzione a 250.000 bambini e ragazzi (il numero di alunni nelle scuole statali nell’anno 2014/2015 è stato stimato essere di circa 7.881.632).
La risposta dunque è che se le future donne moriranno non sarà per resistenze patriarcali che si sono frapposte tra gli studenti e il mio intervento, piuttosto è che tra tutti gli alunni a cui ho fatto il mio intervento paritario non c’era alcun potenziale femminicida, quindi il progetto non è servito a nulla. Quante classi dovrò vedere per trovarne uno? Non ce la farei mai e soprattutto lo stato italiano non può permettersi una spesa simile.
Lo stesso vale per quei gruppi di autoconsapevolezza maschili che vogliono prevenire il femminicidio mediante le famose “chiamate di correità maschili” (non ricordo dove ho trovato questo termine ma era troppo divertente). Non servono a nulla perché quasi sicuramente tra i partecipanti non ci sarà nemmeno un uomo che ucciderà la partner.

P.S. Per Fabrizio Marchi: ho usato di nuovo il mio vecchio nick perché con quello che mi aveva dato si poteva dare l’impressione che fossi un medico ma io non lo sono. La prossima volta vedrò di usare un nome diverso.

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armando 2:17 pm - 13th Settembre:

C’è solo un errore nella tua ottima e logicamente incontrovertibile analisi. Per coloro che promuovono i corsi di “rieducazione” maschile, ogni soggetto maschio è, o sarà, un potenziale stupratore o assassino. E ciò proprio in virtù dell’essere nato maschio. E’ lo stigma razzista, quello che induce qualcuno a parlare di nazifemminismo.

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Arturo 12:47 pm - 26th Ottobre:

Da uomo semplice ho solo l’impressione che in quanto “uomo” la mia dignità valga meno di una donna.

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Aliquis 8:27 am - 7th Dicembre:

Non sono sicuro se sia il post giusto; ma desideravo far conoscere ciò che ho appreso, o almeno quello che mi sembra di aver capito frequentando un ambiente particolare. E non ho trovato altro modo che inserire un commento qui, in questo articolo.

Come sa il conduttore di questo blog e come ho già detto altre volte, io ho un handicap particolare, una condizione che non è facilmente comprensibile da parte di chi non c’è l’ ha, come mi è capitato di verificare anche qui. La mia condizione psicologica, come posso affermare di nuovo qui visto che sono anonimo, rientra nello spettro autistico; la sindrome di asperger. E’ una condizione che inibisce la capacità di relazionarsi con gli altri. Le persone asperger sono spesso persone estremamente sole; nel mio caso il problema è accentuato da difficoltà lavoarative che ovviamente peggiorano il quadro.

Come consigliato da una dottoressa conosciuta in rete, è da quasi un anno che mi sono iscritto ad un forum di persone asperger. Vi partecipo attivamente, con interventi e discussioni. Ho partecipato a tre incontri diretti. Ma non ho trovato una vera interazione, e tra le varie cause credo che la principale sia la divaricazione tra uomini e donne che ho trovato in quell’ ambiente. La maggior parte degli utenti sono donne. Sono tutte sposate o comunque accompagnate; alcune con figli. Gli uomini invece, tutti soli. L’ unico che era sposato, con una moglie conosciuta in una associazione di volontariato, è stato lasciato dalla moglie quando lui ha ricevuto la diagnosi ufficiale di sindrome di asperger. Gli unici uomini non soli sono i gay, abbastanza numerosi in quel forum. Uno di essi, una persona che ha una ricca vita sociale (tanto che non sembra asperger) con cui ho dialogato perchè avevamo interessi culturali comuni, mi ha rivelato che nel mondo dell’ associazionismo gay c’è tanta corruzione e malversazione, dovuto al carattere di “casta chiusa” dei gay prodotta dall’ omofobia. Comunque, pur vivendo in effetti situazioni tremende (come i pestaggi) i gay di quel forum in genere non sono soli. Le donne non sono sole nemmeno loro e in più non vivono situazioni di particolare difficoltà. Gli uomini eterosessuali sono invece più deboli, totalmente soli e in preda a grande fragilità. Uno, che sembrava abbastanza sveglio, è scomparso dopo poco tempo. Uno vive sempre in casa oppure al lavoro, e in questo mi somiglia. Un’ altro come ho detto, con un figlio piccolo, è stato lasciato perchè “debole” e nello stesso tempo ha pure perso il lavoro.

Ecco, non so se può servire la mia testimonianza, la tipologia di uomini di cui parlo è molto minoritaria, ma questo è un caso in cui essere nati maschi è sicuramente peggio. Faccio bene a dirvelo, oppure no?

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Marco Pensante 5:15 pm - 7th Dicembre:

Non so se hai fatto bene o male, comunque con la tua testimonianza hai riconfermato qualcosa che sospettavo da tempo, e cioè che, nonostante la solenne balla che ci viene detta e ripetuta, in realtà le donne odiano ferocemente il benché minimo segno di vulnerabilità negli uomini. Con gli uomini puoi scontrarti e massacrarti, ma in genere non ti odiano per quello che sei, quanto per quello che fai. Ma prova a mostrare la minima debolezza, anche se – come nel caso di queste persone che conosci – viene da una condizione che di sicuro non hanno voluto loro, e la solitudine è garantita. Quindi, quando le donne vi dicono che dovete “mostrare più emozioni” e “non dovete avere paura di mostrarvi vulnerabili”, rispondete nell’unico modo che meritano: con un bel pernacchione.

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armando 12:49 pm - 8th Dicembre:

Aliquis,

Hai fatto bene, Aliquis. Se non lo dici quì, dove trovi solidarietà per il tuo problema, anche se non un aiuto concreto, dove vorresti dirlo? Non certo a una donna, o meglio non certo a una donna che ti potrebbe interessare per più di un’amicizia. E’ vero quello che dice Marco. Dopo decenni di femminismo, di emancipazione, di rivendicazione della propria forza, della necessità dell’uguaglianza, le donne non tollerano, in linea generale naturalmente, le fragilità maschili, o per meglio dire non le tollerano quando non siano solo occasionali e temporanee. Alla fine continuano a chiedere o meglio esigere, dentro di sè, un maschio forte almeno quanto credono di essere loro, meglio ancora se un po’ più forte. Solo questo le tranquillizza un po’.

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Aliquis 7:50 pm - 14th Dicembre:

In effetti con le donne di quel forum posso essere amico, ma solo virtualmente.

Non è mai stato facile per me nascondere le mie debolezze.

Esisterà mai un mondo in cui saremo davvero tutti uguali?

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Renzoni 11:56 pm - 14th Marzo:

Aliquis:

Esisterà mai un mondo in cui saremo davvero tutti uguali?

Credo il Paradiso de cristiani!
Ti capisco benissimo.
Difficile non mostrare emozioni perchè si cerca di esser sè stessi.
quanta ipocrisia questo mondo!!!

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